ALICE E IL SINDACO

orario proiezioni
Ven. 18:00-20:15
Sab.18:00-20:15
Dom 18:00-20:15

Un film di Nicolas Pariser.
Con Fabrice Luchini, Anaïs Demoustier, Nora Hamzawi, Léonie Simaga, Antoine Reinartz
Genere Commedia
Durata 103 min.
Nazione Francia
Distribuzione Bim Distribuzione

PARISER SI CONFERMA AUTORE AUDACE E ISPIRATO IN UNA COMMEDIA FILOSOFICA SULL’IMPOTENZA DELLA POLITICA AD AGIRE.
Recensione di Marzia Gandolfi
A qualche mese dalle elezioni municipali, il sindaco di Lione non ha più idee. Dopo trent’anni di vita politica è come svuotato. In suo soccorso, l’entourage comunale recluta una giovane normalista. Il ruolo di Alice Heimann è rigenerare la capacità di pensare del sindaco e la visione necessaria all’azione politica. Introdotta nel cerchio della fiducia, Alice rivela un’agilità innata per la ‘cosa politica’ fornendo carburante alla macchina municipale. E la macchina riparte ma gli scossoni e i sobbalzi non tarderanno a costringerla alla sosta forzata.
Rivelato nel 2015 da un thriller politico paranoico e promettente (Le Grand Jeu), Nicolas Pariser si impone con Alice e il sindaco come il regista per eccellenza del film politico francese. La politica, reale o sognata, diventa il terreno di (gran) gioco di un autore audace e ispirato, erede di Rohmer, a cui l’ultimo film fa esplicitamente riferimento. Ammiratore del suo cinema, Nicolas Pariser segue studente un corso del regista alla Sorbona a cavallo del ventunesimo secolo e dimostra la sua ammirazione nel titolo, omaggio limpido a un classico di Éric Rohmer, L’albero, il sindaco e la mediateca. Commedia filosofica sulla ruralità, l’ecologia e le manovre politiche, il film di Rohmer ospitava un giovane Fabrice Luchini, non ancora sindaco socialista (interpretato da Pascal Greggory) ma insegnante nel cuore della Francia rurale. Lontano dal fare della politica un uso funzionale, gioco di sosia o semplice motore per commedia o thriller, Pariser opta per la frontalità del reale. Alice e il sindaco rende conto di un consiglio comunale, delle forze di potere in gioco ma soprattutto del consolidarsi della relazione filiale tra una giovane normalista e un sindaco consumato. Attraverso la loro interazione, il regista affronta la natura e l’etica della politica, intesa come amministrazione del bene pubblico coerente a un sistema di valori. Nell’arena politica schiera una giovane donna di lettere, disorientata davanti a un mondo politico che naviga a vista e cerca nella sua giovinezza un po’ di carburante per ravvivare la fiamma, e un vecchio lupo, un sindaco in crisi che rappresenta tuttavia l’utopia di un governante (ancora) illuminato. Se lo stile sobrio di Anaïs Demoustier elude lo stereotipo della generazione Y, appassionata delle nuove tecnologie ma smarrita nel mondo a dispetto degli studi brillanti, Fabrice Luchini non si limita a mostrare quello che è l’incarnazione di un’istituzione, con tutta l’autorità di cui necessita, ma restituisce una sorta di spossatezza che si confonde con la sua volontà di controllo. Luchini è pienamente se stesso, riconosciamo la sua immagine pubblica ma una gravità inusuale altera il suo istrionismo. Il suo Paul Théraneau possiede una vita propria (sindaco di Lione progressista) e non deve niente a nessun modello francese conosciuto (né Sarkozy, né Hollande, né Macron). Come Luchini sembra aver abitato il cinema di Rohmer con cui condivide la passione per la parola letteraria, l’erudizione dei dialoghi, la riflessione intellettuale, la finezza comica. Eppure, ancora una volta, la parola luchiniana è impedita, non si dispiega. I suoi personaggi preferiti sembrano essere uomini in crisi, confrontati con la vanità del loro linguaggio, che sia da Rohmer ma anche da Jacquot (Niente scandalo), Ozon (Nella casa), Dumont (Ma Loute) e recentemente Mimran (Parlami di te). Paul Théraneau si aggiunge alla galleria. Il suo sindaco non è un cattivo politico, al contrario, ha delle convinzioni sincere, una volontà di trasmissione e di condivisione, un interessamento generoso ma non ha più nessuno a cui dare credito. Il sorriso che gli regala Alice svanisce presto e lascia il posto alla malinconia delle passioni incompiute che Luchini restituisce perfettamente. La sua voce acquisisce progressivamente una limpidezza, una forma di chiarezza che non gli conoscevamo. Davanti a lui Alice non è né una fata, né un’amante potenziale. La loro relazione ha il buon gusto di restare platonica e permette al sindaco di fare i conti coi desideri sfumati e di accettare la necessità di chiudere un capitolo. Alice da par suo ascolta e riflette sulla modestia in un mondo megalomane che condanna al limbo i suoi appunti e le sue osservazioni pertinenti. Le sue parole serviranno tuttavia a galvanizzare Théraneu, riacceso (provvisoriamente) in una requisitoria contro i mostri della finanza. Trascendendo il potere, sollevano insieme la visione della politica, delle parole, delle idee rigenerandosi mutualmente. Rappresentanti di due generazioni confuse e sole, si consolano trovando un tempo per il dialogo, un tempo rubato alle agende compresse, un tempo per (ri)generare la parola politica. Trovare il tempo è anche costruire l’acme del film in un lungo piano sequenza di redazione di un discorso sulla guerra economica e gli enfants della Repubblica, prolungamento trasparente del discorso elettorale di François Hollande a Bourget, un discorso rimasto senza seguito. Il film osa reclamare il diritto al seguito pur siglando una dichiarazione di fulminante impotenza della politica ad agire. Rappresentazione della crisi democratica che colpisce la Francia, Alice e il sindaco chiude con una domanda, lasciando lo spettatore libero di decidere per la rinascita o per l’abbandono. Con la medesima volontà di gratitudine e di trasmissione che spingeva gli autori della Nouvelle Vague a moltiplicare i piani sui loro libri prediletti, Nicolas Pariser lascia che la sua camera indugi sulle opere consultate da Alice per aiutare il sindaco a ri-pensare. Le ultime parole del film si applicano allora a un personaggio di Herman Melville, Bartleby, lo scrivano che “preferiva di no”. È Alice a regalare il libro a Théraneau in fondo al film, spalancando l’abisso della riflessione: come (anche) le migliori volontà sono passate dal “guardare le cose diversamente” a “preferire di no”?

VILLETTA CON OSPITI

VEN. 18:00-20:15
SAB. 18:00-20:15
DOM. 18:00-20:15


Un film di Ivano De Matteo
Con Marco Giallini, Michela Cescon, Massimiliano Gallo, Erika Blanc, Cristina Flutur

Genere Drammatico
Durata 88 min.
Nazione Italia
Distribuzione Academy Two

Un noir curato nella messa in scena, schietto e onesto nel suo discorso, con i piedi ben piantati per terra.di Federico Gironi
Uno dei più grandi film della storia del cinema italiano, e tra questi uno dei meno visti e conosciuti, si chiama Signore e signori. Lo diresse Pietro Germi nel 1966, fotografando con straordinaria cattiveria e accuratezza, di incredibile attualità ancora oggi, l’ipocrisia, la falsità, il perbenismo e l’opportunismo della classe borghese. Omaggiato alla lontana da un episodio del Fratelli d’Italia di Neri Parenti e Carlo Vanzina (quello con Jerry Calà e Sabrina Salerno), il film di Germi è stato di certo una fonte d’ispirazione per Ivano De Matteo e Valentina Ferlan nello scrivere Villetta con ospiti, e nell’ambientarlo in quelle stesse aree: quelle del Veneto più benestante.
Villetta con ospiti, però, non è una commedia, per quanto acida: è un noir. E Ivano De Matteo può essere anche felicemente ambizioso, nel suo tentativo di fare un cinema dal forte impianto visivo e narrativo, personale e senza compromessi, ma di certo non è un presuntuoso; uno che pretenda di mettersi sullo stesso piano di un Germi, o di qualche altro grande maestro. Ivano De Matteo si limita a essere e voler essere Ivano De Matteo, e questa è la sua forza e la nostra fortuna.

Il suo film parte senza ansie né smanie. Si prende il tempo necessario per calare lo spettatore in quel mondo, e presentargli i personaggi, lasciando che l’intreccio un po’ malato dei loro rapporti emerga lentamente. Personaggi che non sono affatto simpatici, quelli interpretati da Giallini, da Gallo, da Storti, dalla Cescon. Perfino il prete di Marchioni, fin dall’inizio, ha qualcosa di rigidamente untuoso. Magari sono un pelo eccessivamente simbolici, ma mai macchiette grottesche e caricaturali, e mantengono i piedi ben piantati nella realtà.
Allo stesso modo, la donna rumena che con loro – o alcuni di loro – ha a che fare, intrepretata dalla bravissima Cristina Flutur, non è il ritratto stereotipato della straniera arrivata in Italia per lavorare, e suo figlio adolescente e ribelle non il teppistello sfaticato che certa gente potrebbe immaginarsi.

In qualche modo lo suggerisce lo stesso regista, con quelle punteggiature non troppo insistite che ritraggono da vicino il mondo della natura, il bosco e gli animali: Villetta con ospiti è un film che – pur volendo esplicitamente mettere personaggi e spettatori di fronte a scelte etiche e morali – sta bene attaccato alla concretezza delle cose, alla loro realtà naturale e naturalista.
La necessità che ognuno dei personaggi sia portatore di qualche istanza, e che si debbano ritrovare e svelare l’un l’altro nello stesso luogo e nello stesso momento, in una drammatica circostanza, sono drammaturgicamente scontate, forse, ma necessarie nel disegno di De Matteo; che non cade mai nell’errore di filmare del teatro, e non si scorda mai le esigenze del cinema, curate al dettaglio con la macchina da presa, la musica, la scelta dei luoghi, il montaggio.

Nel cast fanno tutti la loro parte. Come Flutur, Massimiliano Gallo la fa un po’ più e un po’ meglio degli altri, nei panni di un poliziotto cinico e amorale, ma al tempo stesso dal carattere fumoso e inafferrabile. Notevole anche, e molto divertente, il piccolo ruolo di Erika Blanc: una sorta di versione spietatissima della mamma di Franca Valeri in Il vedovo.

RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME

orario proiezioni
ven. 18:00-20:15
Sab. 18:00-20:15
Dom.18:00-20:15


Un film di Céline Sciamm
Con Noémie Merlant, Adèle Haenel, Luàna Bajrami, Valeria Golino, Cécile Morel
Genere Drammatico
Durata 120 min.
Nazione Francia
Distribuzione Lucky Red

ESTREMA CURA DELL’IMMAGINE E DELL’EQUILIBRIO ESTETICO PER UNA RICERCA PROFONDA DELL’IDENTITÀ SESSUALE.
Recensione di Giancarlo Zappoli
Francia, 1770. Marianne, una pittrice, riceve l’incarico di realizzare il ritratto di nozze di Héloise, una giovane donna appena uscita dal convento. Lei però non vuole sposarsi e quindi rifiuta anche il ritratto. Marianne cerca allora di osservarla per poter comunque adempiere al mandato. Scoprirà molte cose anche su di sé.
Céline Sciamma al suo quarto lungometraggio continua la sua ricerca sull’identità sessuale tema nei confronti del quale ha mostrato un’ottima capacità d’indagine in fase di sceneggiatura nonché nel trasferimento sullo schermo.

In questa occasione lascia però il presente per rivolgersi al passato. Un passato che di lì a meno di un ventennio vedrà il fuoco della Rivoluzione che cambierà tutto ma non spazzerà via il pregiudizio e le costrizioni. Non è necessario scomodare riferimenti a Jane Austen per apprezzare uno script in cui Sciamma, sin dalle prime inquadrature, ci enuncia il proprio progetto. Sullo schermo/tela bianco una mano munita di carboncino inizia a delineare un’immagine.

Ecco: esattamente qui sta il senso del film. In una domanda: quanto le strutture sociali impediscono agli individui di farsi ritrarre (cioè guardare) per ciò che veramente sono? Marianne, pronta a gettarsi in mare per recuperare le tele che poi asciugherà insieme al suo corpo nudo davanti ad un camino, possiede le tecniche per ritrarre gli altri ma si troverà a scoprire un’immagine di se stessa che stava nascosta nei recessi della sua sensibilità. Héloise che rifiuta inizialmente lo sguardo altrui (legato inestricabilmente a una condizione coniugale che non vuole accettare) progressivamente imparerà a guardare oltre e ad accettare di essere vista. Tra di loro, solo apparentemente in un ruolo secondario, la giovane serva che resta incinta sottoponendosi ai più diversi tentativi per abortire.

É un film in cui le parole vengono pronunciate solo se e quando sono necessarie perché sono e restano per tutto il tempo le immagini a costituire l’elemento portante della narrazione. La cura nella ricerca non solo dell’inquadratura ma anche degli abiti nonché degli spazi (in particolare gli interni) fa ripensare al Rohmer de La marchesa von…. Là dove la geometria rohmeriana definiva spazi studiati quasi teoreticamente Sciamma cerca anche la nota dissonante del letto sfatto stando però sempre attenta a produrre un equilibrio estetico in cui tutti gli elementi si bilancino. Ciò che deve ‘sbilanciarsi’ è la vita delle due protagoniste che dovranno progressivamente ammettere (innanzitutto con se stesse) sentimenti nuovi e importanti nei confronti dei quali operare delle scelte fondamentali.

HAMMAMET

ORARIO PROIEZIONI
Ven. 18:00-20:30
Sab 18:00-20:30
Dom 18:00-20:30

Un film di Gianni Amelio
Con Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Alberto Paradossi
Genere Biografico
Durata 126 min.
Nazione- Italia
Distribuzione 01 Distribution

LA DISCESA CREPUSCOLARE DI UN UOMO DOMINATO DA PULSIONI CONTRAPPOSTE. UN CRAXI PIÙ VERO DEL VERO GRAZIE A UN GIGANTESCO FAVINO .
Recensione di Paola Casella
Hammamet, fine del secolo scorso. Il Presidente ha lasciato l’Italia, condannato per corruzione e finanziamento illecito con sentenza passata in giudicato. Accanto a lui ci sono moglie e figlia, mentre il secondogenito è in Italia a “combattere” per riabilitarne l’immagine e gestirne l’eredità politica. Nel suo “esilio volontario” lo raggiungono in pochi: Fausto, il figlio dell’ex compagno di partito Vincenzo suicida dopo essere stato inquisito dal Giudice, e un Ospite suo “avversario, mai nemico”. Sono gli ultimi giorni di una parabola umana e politica che vedrà il Presidente dibattersi fra malattia, solitudine e rancore: e la sua ultima testimonianza è affidata alle riprese di Fausto che nello zaino, oltre alla telecamera, nasconde una pistola.
Con Hammamet Gianni Amelio affronta una pagina della Storia d’Italia sulla quale persiste una lettura contrapposta: Craxi era un “maleducato, manigoldo, malfattore, malvivente e maligno”, o un uomo dalla statura fisica e politica imponente “circondato da nani”, bersaglio di una “congiura contro la sua persona” più che contro un sistema di cui “tutti facevano parte”?

Amelio e il suo team di sceneggiatori non forniscono una risposta univoca, e preferiscono concentrrsi sulla dimensione umana di Craxi e su quella scespiriana, kafkiana e sciasciana della sua storia pubblica, laddove il singolo diventa la cartina di tornasole di un modus operandi che non riflette solo le contorsioni e le viltà della politica ma il carattere stesso degli italiani, pronti a salire sul carro del vincitore e a scendere da quello del perdente.

Nessuno dei personaggi, nemmeno Craxi, è chiamato con il suo vero nome, e questo darà il via al gioco delle identificazioni: Vincenzo potrebbe essere Moroni, l’Ospite Fanfani, il Giudice è certamente Di Pietro, e così via. Ma ciò che conta è l’atmosfera crepuscolare della caduta di un uomo di potere mostrato all’inizio in uno dei punti più alti della sua ascesa, a quel 45esimo Congresso del PSI dove il suo viso era inquadrato al centro di un triangolo come l’occhio di Dio, e dove invece Amelio ci mostra già i garofani a terra, presagio del futuro di un partito che “non sopravviverà” all’egocentrismo e agli azzardi di quel capo che per primo l’ha portato alla Presidenza del Consiglio. E il commento musicale di Nicola Piovani decostruisce l’Internazionale, preannunciando i disfacimento del PSI.
Amelio rapporta la figura imponente di Craxi ai suoi spazi, da quelli esaltanti del Congresso a quelli spogli della Tunisia nei quali è impossibile nascondersi (come già ne Il primo uomo), mettendo a confronto l’infinitesimalità dell’Uomo, anche il più potente, con l’immensità dell’ambiente che lo circonda (come ne La stella che non c’è).

All’interno della storia giganteggia Pierfrancesco Favino, cui Hammamet appartiene tanto quanto ad Amelio, che incarna un Craxi più vero del vero nella voce, nel gesto, nella postura, e soprattutto nell’essenza drammatica. La sua non è semplicemente (!) una metamorfosi, ma l’interpretazione magistrale di un uomo dominato da pulsioni contrapposte: egocentrismo e senso dello Stato, orgoglio (anche italico) e arroganza, pragmatismo politico e assenza di cinismo. Un uomo il cui tempo è scaduto, ma la cui discesa crepuscolare verso la fine non riesce a privarlo della sua visione dall’alto.

A commento della vicenda craxiana Amelio allinea spezzoni di film (Le catene della colpa) e canzoni (“Cento giorni”, “A modo mio”, che nel suo “quel che sono l’ho voluto io” ricalca il “My Way” di Frank Sinatra), trasforma (genialmente) la Crisi di Sigonella in una battaglia fra soldatini, dà a Stefania Craxi (soprannominata Anita, come la compagna di Garibaldi, e molto ben interpretata da Livia Rossi) il ruolo di vestale e a Bobo quello del “cretino” (ma gli restituisce anche una dignità filiale).

L’unico passo falso è il personaggio di Fausto, ridondante rispetto alla storia, inadeguato nella recitazione fragile di Luca Filippi, che scompare accanto a quella di Favino: del resto il solo che riesce a tener testa all’attore protagonista (come al personaggio che incarna), è un altro gigante – Renato Carpentieri nei panni dell’Ospite.