La ragazza d’autunno

ORARIO PROIEZIONI
Ven.18:00-20:15
Sab. 18:00-20:15
Dom. 18:00-20:15
Un film di Kantemir Balagov
Con Viktoria Miroshnichenko, Vasilisa Perelygina, Andrey Bykov, Igor Shirokov, Konstantin Balakirev
Genere Drammatico
Durata 120 min.
Nazione Russia
Distribuzione Movies Inspired

UN DRAMMA DALLA REGIA PERFETTA, CHE CONFERMA IL TALENTO DI KANTEMIR BALAGOV, GIOVANE MAESTRO DEL COLORE E DELLO SGUARDO.
Recensione di Marianna Cappi
Leningrado, 1945. La guerra è finita ma l’assedio nazista è stato feroce e la città è in ginocchio. Iya è una ragazza bionda, timida e altissima, che ogni tanto si blocca, per un trauma da stress. Lavora come infermiera in un ospedale e si occupa del piccolo Pashka. Ma quando la vera madre del bambino, Masha, torna dal fronte, lui non c’è più. Spinta psicologicamente al limite dal dolore e dagli orrori vissuti, Masha vuole un altro figlio e Iya dovrà aiutarla, a tutti i costi.
Balagov, non ancora trentenne, è senza dubbio uno dei registi più talentuosi della scena contemporanea, e questo secondo lungometraggio, che segue l’acclamato Tesnota, lo ribadisce e conferma.

Difficile pensare ad un uso del colore più elegante, eloquente ed emozionante, o ad un cinema che trasudi altrettanta verità, tanto che pare di sentirne l’odore, l’aria intrisa di polvere, gli sbalzi di temperatura tra esterni e interni, il leggero graffio della lana grezza sulla pelle.

In anni in cui il contenuto è tornato al centro dell’interesse dei registi, e i loro virtuosismi si manifestano soprattutto nella ricerca di nuove formule del racconto, Beanpole riporta prepotentemente la forma in primissimo piano, rischiando la maniera, a volte sì, ma costruendo, nelle scene chiave, momenti indelebili di grande cinema.

La prima parte del film è la migliore: Iya, la “giraffa”, è ancora al centro della scena, col suo corpo-mistero, strumento di pace e arma di morte, e la strana coppia che forma con il bambino, vittima sacrificale e metafora di un’innocenza impossibile, contiene tutta l’emozione che il film poi non offrirà più, infilando la via algida della relazione morbosa e manipolatoria, che è propria della coppia Iya-Masha. Ma le scene dell’ospedale e della vita domestica, nelle cucine condivise e nei pianerottoli di passaggio, e il gioco che scolora nella tragedia, non si dimenticano e nutrono l’intero film.
Quel che viene dopo riporta il discorso sul dramma storico, a un dopoguerra che ha le sembianze di un purgatorio, in cui tutto ha un prezzo altissimo. Si lotta per risorgere dalle ceneri ma il passato non è ancora tale e l’impaccio, di cui Iya è immagine simbolica, è quello di chi deve imparare a vivere in un mondo nuovo e dimenticato: le donne, in particolare, che portano sul volto le rovine più pesanti della guerra e al loro interno le perdite più traumatiche.

Alla visione del regista contribuiscono naturalmente il lavoro certosino e autoriale della direttrice della fotografia, Ksenia Sereda, e dello scenografo Sergei Ivanov, oltre che l’apprendistato di Bagalov presso Sokurov, maestro di sguardo e di bellezza.

SORRY WE MISSED YOU

orario proiezioni
ven. 18:00-20:15
sab. 18:00-20:15
dom.18:00-20:15

Un film di Ken Loach
Con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Ross Brewster
Durata 100 min.
Nazione Gran Bretagna, Francia, Belgio
Distribuzione Lucky Red

UN FILM PARTECIPE E ACCURATO CHE CI IMPONE IL CONFRONTO CON LA REALTÀ DEI PRECARI, DEI PIÙ DEBOLI, DEI NUOVI SCHIAVI.
Recensione di Giancarlo Zappoli
Ricky, Abby e i loro due figli, l’undicenne Liza Jane e il liceale Sebastian, vivono a Newcastle e sono una famiglia unita. Ricky è stato occupato in diversi mestieri mentre Abby fa assistenza domiciliare a persone anziane e disabili. Nonostante lavorino duro entrambi si rendono conto che non potranno mai avere una casa di loro proprietà. Giunge allora quella che Ricky vede come l’occasione per realizzare i sogni familiari. Se Abby vende la sua auto sarà possibile acquistare un furgone che permetta a lui di diventare un trasportatore freelance con un sensibile incremento nei guadagni. Non tutto però è come sembra.
Verso la fine dei titoli di coda si leggono queste parole: “Grazie a tutti quei trasportatori che ci hanno fornito informazioni sul loro lavoro ma non hanno voluto che i loro nomi comparissero”. In questa breve frase è sintetizzata la modalità di lavoro di Ken Loach (e del suo sceneggiatore doc Paul Laverty): costruire una storia solida sul piano cinematografico senza mai dimenticare la realtà.

Quella ritratta da Ken Loach è una realtà formata da persone che nel non voler comparire denunciano implicitamente la condizione di precarietà in cui operano. Ci sarà probabilmente chi affermerà che siamo di fronte all’ennesimo comizio di un regista che non ha mai nascosto da quale parte batte il suo cuore. Bene, se questo è un comizio lo erano anche, sul piano letterario, “I miserabili” di Victor Hugo o l'”Oliver Twist” di Charles Dickens (solo per fare un esempio).

Loach non scrive romanzi, dirige film ma lo fa con la stessa passione e anche, perché no, con la stessa forma di indignazione. Non si tratta mai con lui di pauperismo, di commiserazione e tantomeno di populismo. A un certo punto del film c’è una reazione verbale da parte di uno dei protagonisti che, se non fosse che al cinema ci si comporta diversamente che a teatro, spingerebbe all’applauso. In quel momento ti accorgi di come Loach abbia saputo leggere non solo nella psicologia dei personaggi (che nel suo cinema sono sempre ‘persone’) ma pure in quella dello spettatore.
Anche sul piano più strettamente cinematografico il suo si presenta come un lavoro tanto partecipe quanto accurato. L’apparente semplicità del suo modo di riprendere richiede un gran lavoro con gli interpreti e fa costantemente leva sulle sue doti di documentarista capace di trasferire la realtà nel cinema di finzione. Si osservino i dialoghi a tavola in famiglia e ci si accorgerà di come vengano portati sullo schermo con la naturalezza di una candid camera. Perché Loach ad ogni film ci chiede non solo di guardare quanto accade seduti sulla nostra comoda poltrona ma di condividere i disagi e le problematiche che ci propone. Ci chiede di confrontarci con quella ‘normalità’ feroce che oggi, come ai tempi della rivoluzione industriale ma con più sofisticata e globalizzata malizia, il dio mercato impone.

Abby, Ricky, Seb e Liza Jane non sono supereroi, non hanno nulla di straordinario nelle loro vite. Sono semplicemente una famiglia, con le proprie difficoltà e con una unità che si vorrebbe far vacillare. Al di là dei proclami retrogradi o interessati di cui la parola ‘famiglia’ viene sempre più spesso fatta oggetto Ken Loach ci ricorda che elemento imprescindibile della sua coesione è, oggi più che mai, la dignità del lavoro che troppo spesso viene sistematicamente conculcata. La schiavitù non è stata abolita. Ha solo cambiato nome. Ken e con lui (in tutt’altro ruolo) Francesco non smettono di ricordarcelo.

THE FAREWELL – UNA BUGIA BUONA

Una commedia sorprendente dai toni sereni e delicati. Un inno alle collisioni di una società aperta. Un film di Lulu Wang con Awkwafina, Tzi Ma, Diana Lin, Gil Perez-Abraham, Ines Laimins, Jim Liu, Zhao Shuzhen, X Mayo, Aoi Mizuhara, Hong Lu. Genere Commedia durata 98 minuti. Produzione USA, Cina 2019. Uscita nelle sale: martedì 24 dicembre 2019 Una famiglia cerca di organizzare un matrimonio prima che la nonna muoia. Marzia Gandolfi – www.mymovies.it Billi Wang è nata a Pechino ma vive a New York da quando aveva sei anni. Il suo contatto sentimentale con la Cina è Nai Nai, la sua vecchia nonna, ancorata alle tradizioni e alla famiglia. Salda e praticamente indistruttibile, a Nai Nai viene diagnosticato un cancro. La famiglia decide di nasconderle la verità e di trascorrere con lei gli ultimi mesi che le restano da vivere. Figli e nipoti, traslocati negli anni in America e in Giappone, rientrano in Cina per riabbracciarla e per ‘improvvisare’ un matrimonio che allontani qualsiasi sospetto. Risoluti e uniti nella bugia, trovano in Billi una resistenza. Inconcludente nella vita e insoddisfatta della vita, Billi vorrebbe liberarsi dell’angoscia e rivelare alla nonna la prognosi infausta. Tra oriente e occidente, troverà una sintesi tra due culture e due condotte etiche. C’è qualcosa nel bel film di Lulu Wang che evoca ”Il banchetto di nozze” di Ang Lee, orientale traslocato in occidente come lei. Un’aria ‘familiare’, il ritorno di una cultura rimossa (nelle forme di una famiglia amata) che produce un quieto terremoto e lascia dietro di sé un nuovo e fertile squilibrio. Conciliata commedia di confronto etnico, ‘The Farewell – Una bugia buona’ muove dall’America verso la Cina, riscaldando il folclore in un viaggio verso le origini. La diaspora della famiglia Wang, divisa tra Stati Uniti e Giappone, rientra e stringe i suoi ‘esuli’ al capezzale di una nonna malata. Ed è il protocollo etico-normativo ‘della cura’, basato in Cina sul “principio della beneficialità” (nell’interesse del paziente in certe circostanze è meglio tacere la verità), il nodo da sciogliere di un racconto che assume in pieno il modello della commedia familiare con la circolazione sentimentale tra i personaggi e il disegno delle loro vite private. Ed è qui che si gioca la novità, l’audacia e la singolare tenerezza di ‘The Farewell’, una commedia sorprendente non per il soggetto ma per il tono. Se lo sfondo dell’incontro-scontro tra culture è sovente il disagio, Lulu Wang sceglie la serenità risolta ma non semplificata del rapporto tra prole espatriata e matriarca ‘radicata’, che ha accettato il destino (straniero) dei propri figli ma non transige sulla Tradizione. Lontano dal dramma quanto dalla parodia, ‘The Farewell’ è una scelta di campo che pesca nella biografia dell’autrice e afferma un nuovo discorso. Il suo punto di osservazione e di ascolto è Billie, quello di attrazione è Nai Nai, ex combattente che chissà quante cose ha visto accadere, che ha capito quasi certamente tutto prima degli altri e prima degli altri ha accettato. Lulu Wang non manca il ‘banchetto di nozze’ con le sue ricadute umoristiche e il suo svolgimento chiassoso e lievemente degradato. Ma è la malattia, la fragilità del congiunto, l’opportunità (o no) di sapere o di ‘forzarlo’ all’informazione, l’architrave solido ma mai ingombrante di una costruzione che sa dare rilievo ai pensieri e alle azioni di ogni personaggio. Nel percorso formativo che conduce Billi dall’America alla Cina e ritorno, la ragazza si scoprirà finalmente pronta alla vita, incarnando nel grido (di forza e intenzione) di un’arte marziale interiore tutta lo splendore della confusione etnica e della commistione di generazioni e costumi. Perché non c’è riscatto e nemmeno ‘guarigione’ in un orizzonte culturalmente univoco. Sono le dinamiche e le collisioni di una società aperta a produrre esiti (e film) decisamente felici.

Il mistero di Henri Pick


Orario Proiezioni
Venerdì 18:00-20:15 Sabato 18:00-20:15 – Domenica 18:00-20:15 Prezzo biglietto € 3,00 Tessera 2020 € 8,00
Venerdi 3 Sabato 4 Domenica 5 Gennaio 2020
Jean-Michel Rouche è un critico letterario e presentatore di un seguitissimo talk show sui libri in uscita. Un giorno in trasmissione si presenta la vedova di un pizzaiolo di cui, dopo la morte, è stato scoperto un romanzo inedito che, a pubblicazione avvenuta, è diventato un best seller. In trasmissione c’è anche la giovane editor che ha scoperto il manoscritto presso un’insolita libreria bretone, dentro la quale c’è una stanza dedicata interamente ai parti letterari di chi non è mai riuscito a farsi pubblicare. Ma Jean-Michel sente odore di imbroglio, e diventa ossessionato dall’idea di smascherare l’autore di quello che lui (e solo lui) ritiene essere un falso letterario. Dunque si reca personalmente in Bretagna per risalire alle origini della frode, e si mette in contatto con la famiglia del pizzaiolo, cercando di scoprirne i segreti. Il mistero Henri Pick appartiene ad un sottogenere curioso, ovvero l’indagine letteraria, che comprende molti titoli, alcuni eccellenti come L’uomo nell’ombra di Polanski. Qui però l’attenzione è meno focalizzata sull’aspetto thriller e più sulla commedia umana, e sulla premessa che “i bei libri sembrano scritti per noi”, dunque appartengono a tutti, quale ne sia l’autore vero e proprio. La riflessione è anche sul mondo dell’editoria e su quanto sia difficile, per un autore sconosciuto, ottenere l’attenzione tanto degli editori quanto dei critici. La sceneggiatura, scritta a quattro mani dal regista Rémi Bezancon e da Vanessa Portal, che adattano per il grande schermo il romanzo “Il mistero Henri Pick” di David Foenkinos, è un po’ troppo intenta a far quadrare ogni dettaglio, ma la mano registica di Bezancon, autore di molte commedie lievi del cinema francese più recente, si mantiene coerentemente leggera, e lascia che siano le caratterizzazioni dei protagonisti e i panorami pittoreschi della Bretagna a farla da padroni. Fabrice Luchini è perfetto nel ruolo del critico letterario disincantato ma non rassegnato al cinismo, e in fondo desideroso di ritrovare quel contatto umano e quella dimensione rurale che la Bretagna offre a piene mani, e Camille Cottin, volto nuovo della commedia francese, è azzeccata nella parte della figlia del piazzaiolo diventato una celebrità locale: del resto la coppia Luchini-Cottin aveva già mostrato una chimica tutta particolare nella serie Netflix Chiama il tuo agente. Anche i personaggi minori sono tratteggiati con delicatezza e precisione creando un insieme corale piacevole, anche se un po’ forzato negli incastri della trama.
Il mistero Henri Pick è il corrispettivo di una tazza di cioccolata calda da bere davanti al caminetto, immaginando fuori dalla finestra la costa bretone e intorno a sé un villaggio in cui tutti si conoscono e i vicini si aggirano in bicicletta. Se l’elemento thriller fosse più accentuato (e si vedessero le componenti più dark della natura umana) si entrerebbe nell’universo cinematografico di Chabrol: invece Bezancon resta sulla soglia del giallo vero e proprio per concentrarsi sull’amabilità dei suoi personaggi, sulla fragilità dell’ego e la superficialità di una produzione letteraria che privilegia la notorietà al talento, lo scoop alla sostanza