CHE FINE HA FATTO BERNADETTE?


Orario Proiezioni
Venerdì 18:00-20:15 Sabato 18:00-20:15 – Domenica 18:00-20:15 Prezzo biglietto € 3,00 Tessera 2020 € 8,00
Venerdi 3 Sabato 4 Domenica 5 Gennaio 2020
Un film di Richard Linklater
Con Cate Blanchett, Billy Crudup, Kristen Wiig, Laurence Fishburne, Emma Nelson
Genere Commedia
Durata 104 min. Nazione USA
Distribuzione- Eagle Pictures
Una simpatica stronza. Come dare torto a Bernadette, quando spiega alla figlia che la popolarità è sopravvalutata? C’è anche la versione per adulti: “Odiare il prossimo non ha mai fatto male a nessuno” (chi vorrebbe commentare parlando dei cretini da tastiera, sappia che per gustare il film serve un po’ di ironia). E come non applaudire quando la casa della vicina, una stronza antipatica che combatte una guerra contro i rovi infestanti, viene invasa dal fango della collina (i rovi impedivano al terreno di franare)? Richard Linklater dedica il film alla madre Diane, morta un paio di anni fa – “La mia Bernadette”. Ecco perché, dopo essersi interessato molto di maschi (in “Boyhood”, girato in 12 anni con il protagonista che cresce davvero, o in “Tutti vogliono qualcosa”) e altrettanto di coppie (“Prima dell’alba” e i suoi due seguiti, “Prima del tramonto e “Prima di mezzanotte”), si interessa alle femmine. In particolare, alla talentosa e premiata architetta che nel film si chiama Bernadette Fox – Cate Blanchett, sempre magnifica anche quando la sceneggiatura vacilla. Ha lasciato il lavoro dopo la nascita della figlia Bee, ora adolescente, che vuole trascinare i genitori in Antartide (va da sé che l’architetta odia i pinguini, teme il mal di mare e ancora di più le navi affollate di crocieristi). Nel romanzo di Maria Sample (in italiano da Rizzoli) i pezzi del puzzle Bernadette sono rimessi insieme dalla figlia. Qui lo spettatore fa meno fatica: la mamma, che porta gli occhiali neri anche in casa, si svela subito nelle sue bizzarrie, a cominciare dall’assistente vocale con il nome indiano. Divertenti i cenni sulla carriera precedente. La Bernadette di Lourdes ebbe 18 visioni, l’architetta si ferma a due. Una vecchia fabbrica risistemata usando paia e paia di occhiali per fabbricare pannelli e lampadari. Una casa costruita usando solo materiali trovati nel raggio di 20 miglia, discariche comprese. Poi il blocco, l’insonnia, tutte le pillole mischiate in un barattolo, perché i colori stavano bene insieme. Ora però la distratta e
attaccabrighe mamma Bernadette non sa più cosa fa dormire e cosa leva la depressione.
Mariarosa Mancuso Il Foglio

QUALCOSA DI MERAVIGLIOSO


Orario Proiezioni
Venerdì 18:00-20:15 Sabato 18:00-20:15 – Domenica 18:00-20:15 Prezzo biglietto € 3,00 Tessera 2019 € 8,00
Venerdi 27 Sabato 28 Domenica 29 Dicembre 2018
QUALCOSA DI MERAVIGLIOSO
Un film di Pierre-François Martin-Laval
Con Isabelle Nanty, Gérard Depardieu, Ahmed Assad, Mizanur Rahaman, Sarah Touffic Othman-Schmitt
Genere. Biografico
Durata 107 min.
Nazione Francia
Distribuzione Bim Distribuzione
«Qualcosa di meraviglioso» oltre la partita a scacchi una parabola integrazionista
di Valerio Caprara Il Mattino
Sull’abnorme questione degli immigrati la politica suole contrapporsi a colpi di spranga ideologica, mentre nei territori della fiction -fatte salve le performance di registi fuori standard come Kaurismaki o Loach- per amor di quieto vivere prevalgono quasi sempre un’ottica piagnucolosa, un taglio ricattatorio e un solidarismo ipocrita perché usato come carta di credito dagli autori di scarsa personalità. Non è, quindi, generato dal solito ciclostile promozionale l’apprezzamento che merita “Qualcosa di meraviglioso” (“Fahim”), scritto e diretto dal cinquantunenne marsigliese Martin-Laval a partire dal libro verità “Un re clandestino” (ediz. italiana Bompiani 2015) che ha furoreggiato a lungo nei media d’oltralpe prima di essere trasposto al cinema. Si tratta di una commedia formalmente appena diligente che si fa, però, seguire dal primo all’ultimo fotogramma puntando molte delle sue carte su un argomento o meglio, una particolare disciplina sportiva esposta a grossi rischi a causa dell’infinita quantità dei precedenti: sembra che il gioco degli scacchi, infatti, sia presente in maniera più o meno sostanziosa in oltre mille titoli della storia del cinema, tra i quali restano indelebili non solo nella memoria dei cinefili almeno “La febbre degli scacchi”, “Il settimo sigillo”, “Mosse pericolose”, “Scacco alla follia” o “La partita – La difesa di Luzhin”.
In questo caso al centro della parabola integrazionista c’è Fahim, fuggito dal tormentato Bangladesh insieme al padre a causa della fame e delle repressioni poliziesche e piovuto nello stordente macrocosmo della Ville Lumière. Grande promessa degli scacchi, il protagonista interpretato in scioltezza dal ragazzino bengali Ahmed viene iscritto non senza difficoltà alla scuola parigina del burbero e venerato maestro Sylvain –ricalcato con una misura apprezzata dagli esperti sulla reale figura del geniale Xavier Parmentier morto precocemente tre anni orsono- dove esprimerà la forza dello specifico talento supportata, per fortuna, da un carattere vispo e sbarazzino del tutto estraneo al robotico solipsismo dei bambini prodigio. Il sogno di partecipare e, perché no, di vincere ai campionati nazionali giovanili produce a questo punto due effetti divergenti nel fragile ma non floscio involucro drammaturgico: da una parte l’intensificarsi della retorica man mano che si corre verso il finale edificante, in cui peraltro il problema dei sans papier viene affrontato con una certa, prudente equità dall’ex ministro del centrodestra repubblicano Fillon; da un’altra, la possibilità per il regista di aggrapparsi alla debordante (in tutti i sensi) presenza di Depardieu, attore sempre meraviglioso che riesce a tenere sotto controllo ritmi collettivi e movimenti individuali e a conferire intensità persino alle schermaglie più prevedibili dei dialoghi. Un corpaccione che comunica l’impressione di potere volare, ogni volta che desidera, al di fuori della gabbia dello schermo per colpire al cuore lo spettatore senza abusare delle proprie inesauribili riserve di gigionismo vitalistico

L’UFFICIALE E LA SPIA

ORARIO PROIEZIONI
Ven 18:00-20:30
Sab. 18:00-20:30
Dom.18:00-20:30

Un film di Roman Polanski.
Con Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner, Grégory Gadebois, Hervé Pierre
Genere Drammatico
Durata 126 min. Nazione USA
Distribuzione 01 Distribution
UN’OPERA DALL’IMPIANTO CLASSICO CHE TROVA LA VIA DEL GRANDE SCHERMO IN UN MOMENTO STORICAMENTE GIUSTO.
Recensione di Giancarlo Zappoli

Gennaio del 1895, pochi mesi prima che i fratelli Lumière diano vita a quello che convenzionalmente chiamiamo Cinema, nel cortile dell’École Militaire di Parigi, Georges Picquart, un ufficiale dell’esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all’umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfus, un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Al disonore segue l’esilio e la sentenza condanna il traditore ad essere confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il caso sembra archiviato. Picquart guadagna la promozione a capo della Sezione di statistica, la stessa unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfus. Ed è allora che si accorge che il passaggio di informazioni al nemico non si è ancora arrestato. Da uomo d’onore quale è si pone la giusta domanda: Dreyfus è davvero colpevole?
Roman Polanski mette le sue doti di Maestro del Cinema al servizio di una vicenda che, in tempi come quelli presenti, merita una rivisitazione.

Il cinema se ne era già occupato in passato. Sia con Emilio Zola di William Dieterle nel 1937 (film che colpì il giovanissimo Roman) e, successivamente, con L’affare Dreyfus di José Ferrer del 1957.Il film purtroppo ha innescato diverse polemiche scaturite dall’intervista che il regista ha rilasciato per il pressbook che ha accompagnato il film alla 76.ma Mostra del Cinema di Venezia. In quelle dichiarazioni Polanski dice di aver potuto comprendere meglio la storia che stava portando sullo schermo a causa delle accuse false che gli vengono periodicamente lanciate. Questo ha provocato reazioni di diversa natura che hanno rischiato di offuscare il valore intrinseco del film.

Perché L’Ufficiale e la Spia si colloca nella categoria delle opere di impianto classico che trovano la via del grande schermo nel momento storicamente giusto. È sicuramente vero che il regista e il suo co-sceneggiatore Robert Harris lavorano da anni su questa idea ma è ora che è indispensabile mostrare, con un film capace di arrivare al grande pubblico, come il Potere sia in grado di costruire falsificazioni capaci di resistere a lungo e di sconvolgere vite.
Viviamo in tempi in cui la memoria collettiva è quotidianamente insidiata da una valanga di news tra cui è sempre più difficile distinguere le vere dalle fake. Attraverso la persona di Picquart (magistralmente interpretato da Dujardin) Polanski ci ricorda come siano necessari uomini che siano capaci di andare al di là delle proprie convinzioni (il colonnello non amava gli ebrei) quando si trovano di fronte a un’ingiustizia che diviene tanto più palese quanto più chi la sta perpetrando fa muro perché non ne emergano le falsificazioni.
L’ingresso nella sede dei Servizi Segreti costituisce così la cifra stilistica del film. In spazi così cupi e privi di ‘aria’ (l’odore della fognatura li pervade) è facile che gli uomini si trasformino in tanti Capitano Henry che gli dichiara: “Voi mi ordinate di uccidere un uomo? Io lo faccio. Mi dite che è stato un errore? Mi dispiace ma non è colpa mia. Questo è l’Esercito” Picquart gli replica: “Questo sarà il suo Esercito. Non il mio”.

Polanski ci interroga sulla morale dei nostri tempi (che non riguarda solo uno specifico settore) e ci invita a vigilare. Forse non siamo più in tempi in cui un articolo di giornale può fare riaprire un processo come accadde con il “J’accuse” di Emile Zola pubblicato su “L’Aurore” ma forse proprio per questo è necessario saper reagire a quella sorta di impermeabilizzazione agli scandali che rischia di produrre un appiattimento dell’opinione pubblica che finisce con il lasciare spazio al morbo dell’indifferenza diffusa. Ricordare ciò che accadde allora può trasformarsi in un monito prezioso.

PARASITE


Orario Proiezioni
Venerdì 18:00-20:30 Sabato 18:00-20:30 – Domenica 18:00-20:30 Prezzo biglietto € 3,00 Tessera 2020 € 8,00
Venerdi 13 Sabato 14 Domenica 15 Dicembre 2019
“Parasite”, istruzioni per l’uso. Genere: commedia nera coreana, anzi nerissima. Sottogenere: scene dalla lotta di classe in uno spazio-tempo delimitato ma dalle mille risonanze metaforiche (vedi “Brutti, sporchi e cattivi”, Ettore Scola, 1976, o “Scene di lotta di classe a Beverly Hills”, Paul Bartel, 1989), qui due abitazioni di Seul. Il seminterrato maleodorante dove vive una famiglia di poveracci, padre, madre, figlio e figlia grandicelli, tutti disoccupati; e la sontuosa villa dei ricchi di turno, padre, madre, figlio e figlia ragazzini, più una governante devota da tener d’occhio anche se non possiamo dire di più. «Com’ è metaforico!», del resto, è la battuta-tormentone di questo film che remixa con diabolica allegria ogni possibile registro, comico, drammatico, erotico, thriller, horror, perfino sentimentale, riuscendo a scuotere e a spiazzare fino al gran finale. Che lega in un unico destino queste famiglie tanto lontane, sotto ogni profilo, quanto oscuramente complementari. E bisognose l’una dell’altra. Palma d’oro a Cannes, una delle palme accolte con maggiori consensi nella storia del festival, “Parasite” ha un altro dono oggi raro. Benché profondamente politico, è uno di quei film che possono unire i pubblici più diversi coniugando la massima efficacia spettacolare a una carica simbolica esplosiva grazie alla sfrenata inventiva dello script, alle performance millimetriche degli attori. E a un uso geniale degli spazi che trasforma le due case del film in metafore viventi della nostra psiche (o della nostra società, è lo stesso). Con gli strati invisibili (o rimossi) nascosti sotto quelli in evidenza, e le zone di confine che mettono – caoticamente – in contatto il mondo di sopra e quello di sotto, per citare er Cecato. Altro più non si può dire senza guastare la sorpresa. Bong Joon-ho cita, giustamente, la santa trinità Hitchcock- Clouzot-Chabrol. Ma ai maestri aggiunge la capacità di trasformare ogni cosa, un paio di mutande, un cellulare, un odore sbagliato, in un’arma. Uno sguardo divertito e quasi affettuoso su questo microcosmo in cui nessuno è buono o cattivo fino in fondo, anche se accadono cose tremende. La colonna sonora di Jung Jae-il, con incursioni di Haendel e Gianni Morandi. Si esce frastornati e pensosi, due stati d’animo che raramente convivono. A Bong Joon-ho si addicono gli opposti. Da L’Espresso, di Fabio Ferzetti