Giovedì al Cinema: TI PORTO IO

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GIOVEDI14 Marzo 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Chris Karcher, Terry ParishCon Patrick Gray, Justin Skeesuck, Ted Hardy, Michael Turner (IV)Genere DocumentarioDurata 100 min.Nazione Spagna, USADistribuzione Mescalito Film UN DOCUMENTARIO UNICO NEL SUO Continua a leggere Giovedì al Cinema: TI PORTO IO

Giovedì al Cinema FILM: LA QUERCIA E I SUOI ABITANTI

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GIOVEDI 7 Marzo 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Laurent Charbonnier, Michel SeydouxGenere DocumentarioDurata 80 min.Nazione FranciaDistribuzione I Wonder Pictures LA FICTION ENTRA NEL DOC NATURALISTICO: UN ESERCIZIO STRANIANTE DI NOTEVOLE FATTURA TECNICA Continua a leggere Giovedì al Cinema FILM: LA QUERCIA E I SUOI ABITANTI

FILM: LA NATURA DELL’AMORE

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VENERDI 1 MARZO 2024SABATO 2 MARZO 2024DOMENICA 3 MARZO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Monia ChokriCon Magalie Lépine Blondeau, Pierre-Yves Cardinal, Monia Chokri, Francis-William RhéaumeGenere CommediaDurata 110 min.Nazione CanadaDistribuzione Wanted TRA IRONIA Continua a leggere FILM: LA NATURA DELL’AMORE

Giovedì al Cinema FILM: MOUNTAIN

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GIOVEDI 29 FEBBRAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Jennifer PeedomCon Willem DafoeGenere DocumentarioDurata 74 min.Nazione AustraliaDistribuzione Mescalito Film Mountain è il documentario della regista australiana Jennifer Peedom, che in chiave di sinfonia Continua a leggere Giovedì al Cinema FILM: MOUNTAIN

FILM:GREEN BORDER

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VENERDI 23 FEBBRAIO 2024SABATO 24 FEBBRAIO 2024DOMENICA 25 FEBBRAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:30ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Agnieszka HollandCon Behi Djanati Atai, Agata Kulesza, Maja Ostaszewska, Tomasz Wlosok.Genere DrammaticoDurata 147 min.Nazione Polonia, Germania, Francia, BelgioDistribuzione Continua a leggere FILM:GREEN BORDER

Metti un giovedì al cinema FILM : FOTO DI FAMIGLIA

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GIOVEDI 22 FEBBRAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:30ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Ryôta NakanoCon Kazunari Ninomiya, Haru Kuroki, Satoshi Tsumabuki, Jun Fubuki.Genere CommediaDurata 127 min.Nazione GiapponeDistribuzione Officine Ubu DA UNA STORIA VERA, LA VITA, I CRUCCI Continua a leggere Metti un giovedì al cinema FILM : FOTO DI FAMIGLIA

FILM : APPUNTAMENTO A LAND’S END

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VENERDI 16 FEBBRAIO 2024SABATO 17 FEBBRAIO 2024DOMENICA 18 FEBBRAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Gillies MacKinnonCon Timothy Spall, Phyllis Logan, Brian Pettifer, Celyn JonesGenere DrammaticoDurata 86 min.Nazione Gran Bretagna, Emirati Arabi UnitiDistribuzione Continua a leggere FILM : APPUNTAMENTO A LAND’S END

Metti un giovedì al cinema FILM: PASANG all’ombra dell’Everest

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GIOVEDI 15 FEBBRAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Nancy SvendsenCon Pasang Lhamu SherpaGenere DocumentarioDurata 71 min.Nazione USADistribuzione Mescalito Film UN DOCUMENTARIO ORIGINALE CHE RACCONTA LA STORIA DI UNA DONNA CHE HA SCALATO Continua a leggere Metti un giovedì al cinema FILM: PASANG all’ombra dell’Everest

Bando di concorso: disegna la tessera dell’Arci 2024-2025

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Tesseramento Arci 2024/2025 ARCI Aps bandisce un concorso per l’acquisizione di proposte ideative finalizzate alla realizzazione della campagna di tesseramento per l’annualità 2024/2025, al fine di affidarne successivamente il servizio di attuazione e sviluppo.  Il progetto di comunicazione richiesto deve Continua a leggere Bando di concorso: disegna la tessera dell’Arci 2024-2025

FILM:THE HOLDOVERS-LEZIONI DI VITA

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VENERDI 9 FEBBRAIO 2024SABATO 10 FEBBRAIO 2024DOMENICA 11 FEBBRAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:30ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 INTELLIGENTE E CAUSTICO, UN FILM DOLCE-AMARO CHE ABBRACCIA TEMI ATEMPORALI E CI INVITA AL VIAGGIO.Recensione di Marzia Gandolfi Paul Hunham è Continua a leggere FILM:THE HOLDOVERS-LEZIONI DI VITA

Metti un giovedì al cinema FILM: ALLA MIA PICCOLA SAMA

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GIOVEDI 8 FEBBRAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00Un film di Waad Al-Khateab, Edward WattsCon Jasmine Trinca, Waad Al-Khateab, Sama Al-Khateab, Hamza Al-Khateab.Genere DocumentarioDurata 100 min.Nazione Gran BretagnaDistribuzione Wanted UNA STORIA PERSONALE CHE DIVENTA MANIFESTO DELLA Continua a leggere Metti un giovedì al cinema FILM: ALLA MIA PICCOLA SAMA

FILM:FOGLIE AL VENTO

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VENERDI 26 GENNAIO 2024SABATO 27 GENNAIO 2024DOMENICA 28 GENNAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Aki KaurismäkiCon Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu. Genere CommediaDurata 81 min.Nazione FinlandiaDistribuzione Lucky Red L’INCONTRO Continua a leggere FILM:FOGLIE AL VENTO

metti un giovedì al cinema FILM: L’ULTIMA VETTA

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GIOVEDI 25 GENNAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Chris TerrillGenere DocumentarioDurata 100 min.Nazione Gran BretagnaDistribuzione Mescalito Film UN VIAGGIO-DOCUMENTARIO INTENSO E ORIGINALE.Recensione di Giuseppe Avico Tom Ballard è stato tra i più Continua a leggere metti un giovedì al cinema FILM: L’ULTIMA VETTA

FILM: THE MIRACLE CLUB

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VENERDI 19 GENNAIO 2024SABATO 20 GENNAIO 2024DOMENICA 21 GENNAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Thaddeus O’SullivanCon Laura Linney, Kathy Bates, Maggie Smith, Agnes O’Casey. Genere CommediaDurata 91 min. Nazione USADistribuzione Europictures UN Continua a leggere FILM: THE MIRACLE CLUB

metti un giovedì al cinema FILM :TUTTA LA BELLEZZA E IL DOLORE

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GIOVEDI 18 GENNAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 Tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Laura PoitrasCon Nan Goldin, Alfonse D’amato, Ed Koch, John Mearsheimer. Genere DocumentarioDurata 113 min.Nazione USADistribuzione I Wonder Pictures UN DOC STRATIFICATO CHE ASSOCIA, TRAMITE Continua a leggere metti un giovedì al cinema FILM :TUTTA LA BELLEZZA E IL DOLORE

FILM: IL MAESTRO GIARDINIERE

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VENERDI 12 GENNAIO 2024SABATO 13 GENNAIO 2024DOMENICA 14 GENNAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Paul SchraderCon Joel Edgerton, Sigourney Weaver, Quintessa Swindell, Esai Morales.Genere ThrillerDurata 107 min.Nazione USA 2022.Distribuzione Movies Inspired SCHRADER Continua a leggere FILM: IL MAESTRO GIARDINIERE

FILM:LA CHIMERA

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VENERDI 5 GENNAIO 2024SABATO 6 GENNAIO 2024DOMENICA 7 GENNAIO 2024orario proiezioni 18:00-20:30ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Alice RohrwacherCon Josh O’Connor, Carol Duarte, Vincenzo Nemolato, Alba RohrwacherGenere DrammaticoDurata 134 min.Nazione ItaliaDistribuzione 01 Distribution UN FILM Continua a leggere FILM:LA CHIMERA

FILM:IL MALE NON ESISTE

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GIOVEDI 28 DICEMBRE 2023VENERDI 29 DICEMBRE 2023SABATO 30 DICEMBRE 2023orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Ryûsuke HamaguchiCon Hitoshi Omika, Ryo Nishikawa, Ryûji Kosaka, Ayaka Shibutani. Genere DrammaticoDurata 106 min.Nazione GiapponeDistribuzione Teodora Film UNA Continua a leggere FILM:IL MALE NON ESISTE

FILM: UN ANNO DIFFICILE

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GIOVEDI 21 DICEMBRE 2023VENERDI 22 DICEMBRE 2023SABATO 23 DICEMBRE 2023orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00Un film di Olivier Nakache, Eric ToledanoCon Pio Marmaï, Jonathan Cohen, Noémie Merlant, Mathieu Amalric.Genere CommediaDurata 120 min.Nazione FranciaDistribuzione I Wonder Pictures Continua a leggere FILM: UN ANNO DIFFICILE

FILM:PALAZZINA LAF

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VENERDI 15 DICEMBRE 2023SABATO 16 DICEMBRE 2023DOMENICA 17 DICEMBRE 2023orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Michele RiondinoCon Michele Riondino, Elio Germano, Vanessa Scalera, Domenico FortunatoGenere Drammatico,Durata 99 min.Nazione ItaliaDistribuzione Bim Distribuzione IL FULMINANTE Continua a leggere FILM:PALAZZINA LAF

FILM: THE OLD OAK

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VENERDI 8 DICEMBRE 2023SABATO 9 DICEMBRE 2023DOMENICA 10 DICEMBRE 2023orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00Un film di Ken LoachCon Dave Turner, Ebla Mari, Claire Rodgerson, Trevor Fox.Genere DrammaticoDurata 113 min.Nazione FranciaDistribuzione Lucky Red UN FILM NECESSARIO Continua a leggere FILM: THE OLD OAK

FILM: IL CAFTANO BLU

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VENERDI 1 DICEMBRE 2023SABATO 2 DICEMBRE 2023DOMENICA 3 DICEMBRE 2023orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Maryam TouzaniCon Lubna Azabal, Saleh Bakri, Ayoub MessiouiGenere DrammaticoDurata 122 min.Nazione MaroccoDistribuzione Movies Inspired TOUZANI SI CONFERMA AUTRICE Continua a leggere FILM: IL CAFTANO BLU

FILM: FELICITA’

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VENERDI 24 NOVEMBRE 2023SABATO 25 NOVEMBRE 2023DOMENICA 26 NOVEMBRE 2023orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2023/24 € 8,00 Un film di Micaela RamazzottiCon Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti Genere DrammaticoDurata 104 min.Nazione ItaliaDistribuzione- 01 Distribution UN Continua a leggere FILM: FELICITA’

FILM: ANATOMIA DI UNA CADUTA

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VENERDI 17 NOVEMBRE 2023SABATO 18 NOVEMBRE 2023DOMENICA 19 NOVEMBRE 2023orario proiezioni 18:00-20:45ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00 UN FILM DI Justine TrietCON Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner, Antoine ReinartzGENERE DrammaticoDURATA 150 min.NAZIONE FranciaDISTRIBUZIONE Teodora UNA TESA Continua a leggere FILM: ANATOMIA DI UNA CADUTA

FILM: IL LIBRO DELLE SOLUZIONI

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VENERDI 10 NOVEMBRE 2023SABATO 11 NOVEMBRE 2023DOMENICA 12 NOVEMBRE 2023orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00 Un film di Michel GondryCon Pierre Niney, Blanche Gardin, Frankie Wallach, Camille RutherfordGenere CommediaDurata 102 min.Nazione FranciaDistribuzione I Wonder Pictures L’IRRESISTIBILE Continua a leggere FILM: IL LIBRO DELLE SOLUZIONI

FILM: I PIONIERI

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VENERDI 26 maggio 2023
SABATO 27 maggio 2023
DOMENICA 28 maggio 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00
Un film di Luca Scivoletto
Con Mattia Bonaventura, Francesco Cilia, Danilo Di Vita, Matilde Sofia Fazio
Genere Drammatico
Durata 86 min.
Nazione Italia
Distribuzione Fandango

TRA MOONRISE KINGDOM E COSMONAUTA, UNA STORIA SEMPLICE MA MAI SEMPLICISTICA, CON UNA SUA CONVINCENTE ORIGINALITÀ.
Recensione di Paola Casella
Comiso, 1990. Enrico ha 13 anni ed è cresciuto in una famiglia di ferventi comunisti, figlio di un funzionario del PCI e di una militante integralista. La sorella maggiore Chiara è riuscita a defilarsi, lui invece dovrà trascorrere le vacanze estive accompagnando di sezione in sezione il padre, che è in predicato per la segreteria regionale del partito. Enrico invece decide di fuggire di casa insieme al suo migliore amico Renato, anche lui figlio di ferventi comunisti e a sua volta attivista convinto. Insieme rifonderanno il campeggio dei Pionieri, uno storico gruppo scout comunista, e a loro si unirà inopinatamente Vittorio Romano, il figlio bullo del fascista locale.
Quando avvisteranno Margherita, una ragazza italoamericana fuggita da un campeggio per i figli dei militari di una base yankee della Sicilia meridionale, Enrico scoprirà anche l’amore e il quartetto troverà la sua massima unità, con buona pace del fantasma di Enrico Berlinguer, che dispensa al ragazzino occasionali consigli su come stare al mondo.
I pionieri è l’opera prima di Luca Scivoletto, che oltre a dirigere lo ha scritto insieme a Eleonora Cimpanelli e Pierpaolo Pirone. Il film si pone al crocevia fra Moonrise Kingdom e Cosmonauta, riuscendo comunque a conservare una sua originalità e una sua particolare dolcezza.
La storia nasce dal ricordo autobiografico del regista, figlio di un funzionario del PCI e frequentatore involontario delle sue sedi siciliane, e in parallelo alla vicenda dei quattro ragazzini scorre quella della delusione storica di un partito che voleva cambiare l’Italia e invece ha continuato a cambiare direzione, dalla “svolta di Occhetto” proprio di quegli anni in poi. Anche Berlinguer, veicolato da Caudio Bigagli senza trasformarlo in una macchietta, ha un ruolo simile a quello del “Bogie” di Provaci ancora, Sam: un mito personale per dare corpo alla propria coscienza e coraggio alla propria insicurezza.
È raro trovare un film indirizzato ai preadolescenti che funzioni, sia per il pubblico per cui è inteso che per spettatori più stagionati, e I pionieri ci riesce, trovando un livello di scrittura adatto ai personaggi più giovani, ma anche ricco di riferimenti che gli adulti riconosceranno, e che li faranno sorridere.
Fa la differenza anche il cast, metà del quale forse si deve a Lorenza Indovina, che interpreta il ruolo della madre di Enrico e che è stata acting coach della serie di Niccolò Ammaniti Anna, dove recitavano per la prima volta due dei quattro giovani attori di I pionieri, ovvero Danilo di Vita (Vittorio Romano) e Matilde Sofia Fazio (Margherita). Ma anche Mattia Bonaventura (Enrico) e soprattutto Francesco Cilia (Renato), cui toccano le battute più divertenti, funzionano molto bene.
Accanto a loro gli attori adulti – Peppino Mazzotta (il padre di Enrico), Eleonora Danco (la madre di Renato) e Maurizio Bologna (il padre di Vittorio Romano) – interpretano i loro ruoli con la dovuta serietà professionale, senza “buttarli via” solo perché questo è un film che vede protagonisti i giovanissimi. C’è anche un cammeo di Roberto Nobile, ahimé alla sua ultima interpretazione.
Ed è di ottimo livello tutto il lavoro della squadra tecnico-artistica (Stefano Falivene alla fotografia, Alice Roffinengo al montaggio, Flaviano Barbarisi alle scenografie e Alfonsina Lettieri ai costumi), così come il commento musicale del chitarrista e compositore Alessandro “Asso” Stefana e dello stesso Luca Scivoletto, che accompagna efficacemente questa storia semplice, ma mai semplicistica. 

FILM:RITORNO A SEOUL

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VENERDI 19 maggio 2023
SABATO 20 maggio 2023
DOMENICA 21 maggio 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00
Un film di Davy Chou
Con Ji-min Park, Kwang-rok Oh, Guka Han, Kim Sun-Young
Genere Drammatico
Durata 117 min.
Nazione Francia, Cambogia
Distribuzione I Wonder Pictures

UNA PERLA CESELLATA NEL MINIMALISMO SENTIMENTALE, UN FILM CAPACE DI COMMUOVERE SENZA RETORICA NÉ SPERANZA.
Recensione di Archimede Favini
Freddie ha 25 anni, da molto piccola è stata adottata da una coppia francese che l’ha cresciuta amorevolmente, ma per qualche recondito motivo le sue origini coreane rimangono per lei un nodo irrisolto. In maniera piuttosto fortuita è costretta a trasferire il suo viaggio da Tokyo a Seoul, luogo in cui non riuscirà a ignorare il richiamo delle sue radici e finirà per mettersi alla ricerca della sua famiglia biologica. Nel giro di anni, fatti di silenzio, freddezza e poi riavvicinamenti, Freddie prova a ricostruire i pezzi sparsi della sua identità, cercando di comunicare con un padre alcolizzato che non parla nemmeno la sua lingua e una madre che non vuole farsi trovare.
Una famosa frase di Antonioni dice che talvolta il personaggio può anche non guardare l’altro, conosce la sua faccia, sa perfettamente cosa pensa; per capirsi davvero è necessario guardare oltre, bisogna guardare nel vuoto.
Freddie Benoit cammina a testa alta per le strade piovose di Seoul, sembra trafiggere spavaldamente gli occhi dei passanti con il suo sguardo freddo, quando in realtà si sta guardando dentro, sta fissando il vuoto che lentamente la inghiottisce. Nemmeno lei ha idea di come sia possibile tentare di colmare questo vuoto, viene da chiedersi se l’effettivo ricongiungimento con i genitori biologici e con le sue radici perdute sia abbastanza. Forse, semplicemente ci sono persone piene e persone vuote, e Freddie fa parte delle seconde.
Ma non può fare a meno di sentirsi così, come un buco nero ambulante che annienta tutto ciò che tocca, e se niente può davvero appagarla allora non vale neanche la pena tentare di creare legami durevoli o condividere qualcosa con qualcuno. Come l’ultima bufera invernale spazza via tutti i bucaneve che timidamente cercano di bucare il manto nevoso, Freddie sopprime ogni relazione o rapporto che richieda un minimo di amore e pazienza. La sua vita sembra come in pausa, Freddie si lascia vivere, errando, osservando, sbagliando e facendo finta di divertirsi mentre attende una risposta della sua madre biologica, che nella sua psiche straziata si presenta come l’unica possibile speranza di rinascita.
Come il Boccadoro di Herman Hesse, ossessionato dall’assenza della figura materna che lui eleva nei suoi deliri a madre-natura e senso ultimo dell’arte, Freddie Benoit proietta nel feticcio assente della madre biologica tutto l’amore che non ha, tutte le persone che non sarà mai, il doppelganger opposto della sé stessa che proprio non riesce ad amare.
Davy Chou, filtrando la sua stessa esperienza di immigrato, compone un meraviglioso ritratto giocato sulla riduzione e sul minimalismo emotivo, che ha l’incredibile pregio di risultare toccante e illibato pur essendo imbevuto di un’irrimediabile disperazione di fondo.
In un panorama cinematografico ma non solo, che fa dell’ottimismo e della politica del lieto fine la sua cifra, Davy Chou ci mette davanti all’incapacità di risolvere certi nodi identitari o dissidi, senza neanche suggerire una via per poterci convivere: questa è la vera grandezza di Retour a Seoul, riesce ad essere vero senza rinunciare alla delicatezza e alla sensibilità.
Tuttavia, anche nei suoi esiti più struggenti ed emotivamente destabilizzanti, Chou ha il pregio di riuscire a donare compattezza e spessore drammatico all’opera, attraverso una sapiente gestione del ritmo, che per quanto composito si mantiene sempre coinvolgente.
Davy Chou con la sua finezza sentimentale e il suo stile, si conferma sempre di più un astro nascente del panorama cinematografico internazionale. 

FILM: Mon Crime – La colpevole sono io

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VENERDI 12 maggio 2023
SABATO 13 maggio 2023
DOMENICA 14 maggio 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00
Un film di François Ozon
Con Nadia Tereszkiewicz, Rebecca Marder, Isabelle Huppert, Fabrice Luchini
Genere Drammatico
Durata 102 min. Nazione Francia
Distribuzione Bim Distribuzione

UNO SMAGLIANTE MANIFESTO FEMMINISTA, PIÙ SOVVERSIVO DI QUANTO LE SUE ‘BUONE MANIERE’ LASCINO INTENDERE.
Recensione di Marzia Gandolfi
Parigi, 1935. Madeleine Verdier, aspirante attrice convocata da un celebre produttore per un ruolo e poi aggredita, è accusata a torto del suo omicidio. Con la complicità di Pauline Mauléon, avvocato senza clienti che si incarica della sua difesa, si assume il crimine e accede alla gloria denunciando la misoginia della società e l’incompetenza della giustizia. Il tribunale diventa ‘teatro’ della sua performance. L’ingiustizia subita commuove l’opinione pubblico, il successo è immediato. Per Madeleine comincia una nuova vita, gli ingaggi piovono coi fiori e le proposte di matrimonio ma la vera colpevole bussa alla porta e reclama la sua parte…
Procedendo al ritmo di un film all’anno, François Ozon non smette di girare e di concimare i generi.
Soltanto ieri firmava Peter von Kant, evocazione impertinente del suo idolo, Rainer Werner Fassbinder, e otto mesi più tardi è di ritorno con una commedia che riconfigura il presente col sorriso aperto e la giusta dose di insolenza. Perché quella che avrebbe potuto essere una screwball comedy nostalgica dispiega, al contrario, una vitalità organica che ‘suona’ le note moderne delle protagoniste.
Con 8 donne e un mistero e Potiche – La bella statuina, Mon Crime – La colpevole sono io forma una sorta di trilogia ideale, inscrivendosi nella vena più popolare e leggera dell’autore. Un trittico scintillante che condivide lo stesso DNA e gli artifici della rappresentazione scenica, perché il teatro resta la sorgente d’ispirazione maggiore per Ozon, come se la teatralità gli permettesse di celebrare meglio il cinema. Ma Mon Crime è altrettanto ossessionato dalla storia del cinema e ritrova lo spirito delle commedie sofisticate dell’età dell’oro hollywoodiana. Una stagione glamour, sublimata tra gli altri da Ernst Lubitsch e Howard Hawks, dove i personaggi si affrontano a colpi di repliche e le donne portano volentieri i pantaloni.
Dopo aver ‘cantato’ la misoginia negli anni Cinquanta, con un vaudeville smisurato e barocco (8 donne e un mistero), dopo aver dato una lezione di femminismo sullo sfondo degli anni Settanta (Potiche), con una commedia ludica dai colori vintage, ribadisce la gioia insurrezionale di ‘eliminare’ la figura maschile abusante, o caricaturalmente maschile e arrogante, che nutre il suo cinema dagli esordi (Sitcom).
Comme d’habitude, Ozon va oltre il testo che lo ispira. Mentre le nostre eroine ‘prendono la parola’ (e la pistola), il film allude a una possibile deriva del potere femminile. Se in Potiche era l’avvento della ‘supermamma’, in Mon Crime è la possibilità di raggiungere un fine personale. Il femminismo ostentato non manca di ambiguità, l’emancipazione e la scalata sociale delle protagoniste passano di fatto per le bugie e la manipolazione. Perfidia intrigante di un film che dietro il divertissement e i virtuosismi verbali si rivela più sovversivo di quanto le sue ‘buone maniere’ lascino intendere.
La pièce de boulevard di Georges Berr e Louis Verneuil, scritta nel 1934 e aggiornata al 2023, ‘difende’ la necessità della violenza, qui estrema (l’omicidio come unico mezzo per proteggersi dagli uomini), e la riconquista del potere delle donne attraverso l’esercizio di questa violenza. L’aula di tribunale è un laboratorio di sperimentazione performativa per le protagoniste e per le loro interpreti che praticano la sorellanza e si divertono ad abbattere gli uomini e l’immagine che gli uomini hanno di loro.
Ma ancora più bella è la maniera generosa di Ozon di invitare due attrici in divenire, e tra le più promettenti della loro generazione, nello star system francese. Intorno a Nadia Tereszkiewicz (Forever Young), che incarna la ‘deliziosa’ colpevole che il pubblico, da convenzione, ama odiare, e Rebecca Marder (Une jeune fille qui va bien), novizia del foro che farà di lei un’icona femminista, ruotano come satelliti Fabrice Luchini, giudice conservatore che ha fretta di archiviare l’omicidio invece di chiarirlo, Dany Boon, affarista provenzale con accento di Marsiglia e baffo malandrino, e Isabelle Huppert, attrice del muto lanciata a pieno regime contro il privilegio maschile dominante.
In questo gioco di ruoli, di inganni e di massacro, la tentazione di mettere in competizione gli interpreti è grande ma è più appropriato constatare l’inarrestabile effetto comico che producono insieme generando un miracolo: la verità dietro tanto trucco.
Ancora una volta, Ozon fissa un punto di incontro tra un’attrice (senza tempo) e il suo personaggio. In Potiche Catherine Deneuve, star del passato che non smette di investire sul presente, è una creatura del futuro anteriore che modificherà la mentalità e la percezione delle donne in una società ancora patriarcale. In Mon Crime, Isabelle Huppert, che sullo schermo sembra ringiovanire con gli anni, incarna un’attrice obsoleta che pretende di rivalizzare con due giovani primizie. Anche questo fa di Mon Crime uno smagliante (e divertito) manifesto femminista. 

FILM:LA COSPIRAZIONE DEL CAIRO

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VENERDI 5 maggio 2023
SABATO 6 maggio 2023
DOMENICA 7 maggio 2023
orario proiezioni 18:00-20:30
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00
Un film di Tarik Saleh
Con Tawfeek Barhom, Fares Fares, Mehdi Dehbi, Mohammad Bakri. Genere Drammatico
Durata 126 min.
Nazione Svezia
Distribuzione Movies Inspired
UN FILM CHE NON FA SCONTI A NESSUNO, A METÀ FRA THRILLER POLITICO E FILM DI SPIONAGGIO.
Recensione di Paola Casella
Adam è figlio di un pescatore analfabeta ma ha sempre amato leggere e studiare, perché a detta di suo padre è intelligente come quella madre scomparsa troppo presto. Dunque il ragazzo ottiene una borsa di studio per l’Università Al-Azhar de Il Cairo, conosciuta come “la più grande istituzione islamica”. Ma poco dopo l’arrivo di Adam il Grande Imam che dirige Al-Azhar muore, e si pone il problema della sua successione. Il candidato naturale sarebbe un anziano Imam cieco di grande profondità spirituale, ma il Presidente della Repubblica egiziano gli preferisce un altro leader, più incline a mantenere la separazione fra religione e Stato. Incaricato di vigilare sulla transizione alla testa dell’ateneo per conto del governo è il Colonnello Ibrahim, ambigua figura di grande abilità strategica, che non disdegna mezzi di persuasione anche assai poco leciti. E in mezzo a questo crocevia finirà proprio Adam, come recluta innocente.
La cospirazione del Cairo è il quinto film del regista svedese di origini egiziane Tarik Saleh ed è una coproduzione internazionale interpretata da un cast proveniente da vari Paesi di lingua e cultura araba, il che consente a Saleh la giusta (e sicura) distanza nel raccontare una storia assai complessa, che non sacrifica mai la stratificazione alla spettacolarità.
Di fatto La cospirazione del Cairo è un thriller politico e una spy story, e la figura del Colonnello Ibrahim, magnificamente interpretato dall’attore libanese naturalizzato svedese Fares Fares, è degna dei personaggi di John Le Carré o Graham Greene. Ma il tema si amplia ad includere il complicato rapporto fra laicità e religione nei Paesi arabi, e vede al centro la figura di un animo puro con un problema in più, rispetto ai “tipi qualunque” gettati in circostanze difficili di altre spy story: è cresciuto in una cultura e una fede che sanciscono che “nessuno può decidere del proprio destino”.
Adam reagisce dunque agli eventi aggrappandosi all’unica ancora di salvezza che possiede: l’enunciazione della verità. E grazie alla sua naturale intelligenza riesce ad attraversare l’affastellarsi degli eventi con la capacità di guardare attraverso le falsità e le ipocrisie che lo circondano. Perché il film di Saleh non fa sconti a nessuno, compresi leader religiosi corrotti e politici ambiziosi e sanguinari. Diversamente da Adam il Colonnello Ibrahim, tutt’altro che un puro, è maestro nel navigare le acque pericolose che lo circondano, mescolando astuzia e opportunismo. Fares ne mostra ogni sfumatura, facendolo passare dall’insensibilità alla bonomia, dalla rassegnazione alla combattività.
A centro della storia non c’è né l’Islam (e le sue radicalizzazioni) né il governo egiziano ma un Potere assoluto e metaforico che corrompe e rende gli uomini capaci delle peggiori nefandezze, in contraddizione alla loro retorica e ai loro ruoli di guide, secolari o spirituali. L’antidoto è l’istruzione, che porta a leggere “quei libri che fanno paura ai tiranni e ai re” e che non può essere indottrinamento, laico o religioso.
La regia di Saleh è talvolta grezza e scolastica, ma conserva un’onestà di fondo nel mettere in scena una storia di scollinamenti morali progressivi che mettono alla prova, e a nudo, la vera natura di ogni persona e di ogni istituzione, soprattutto quelle preposte a decidere delle vite dei cittadini. La cospirazione del Cairo non fornisce facili soluzioni, anzi, invita gli spettatori a rispondere alla domanda posta ad Adam: da questa storia che cosa avete imparato?

FILM:STRANIZZA D’AMURI

In rilievo

VENERDI 28 APRILE 2023
SABATO 29 APRILE 2023
DOMENICA 30 APRILE 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00
Un film di Giuseppe Fiorello
Con Gabriele Pizzurro, Samuele Segreto, Fabrizia Sacchi, Simona Malato
Genere Drammatico
Durata 130 min
Nazione Italia
Distribuzione Bim Distribuzione

CON SCELTE DI REGIA MAI MANIPOLATIVE, BEPPE FIORELLO EVIDENZIA I PREGIUDIZI MENTRE RIEVOCA UN AMBIENTE AUTENTICO ED EMOZIONI VIVISSIME.
Recensione di Paola Casella
Sicilia, estate 1982. Nino è il figlio maggiore in una famiglia di creatori di fuochi d’artificio: gente onesta, allegra e laboriosa. Il ragazzo ha appena terminato il liceo con profitto e il suo regalo è stato quel motorino con cui scorrazza gioiosamente attraverso la campagna siciliana. Gianni è un suo coetaneo tornato dal riformatorio che vive in un altro paese con la madre e il patrigno che gli ha dato un lavoro nella sua officina e un tetto sopra la testa, ma che lo tratta con continuo disprezzo. Di fronte all’officina c’è il bar i cui avventori si dilettano a prendere in giro il ragazzo additandolo come omosessuale. Un giorno, mentre Gianni sta andando a consegnare un Ciao ad un cliente, Nino lo sperona con il suo motorino: è la scintilla che accende un’amicizia meravigliosa, che potrebbe condurre a qualcosa di molto più profondo. Ma la Sicilia rurale dei primi anni Ottanta non è il luogo per questo tipo di relazioni dai confini incerti.
Giuseppe “Beppe” Fiorello esordisce alla regia del lungometraggio Stranizza d’amuri, già titolo di una celebre canzone del suo concittadino Franco Battiato, con un progetto che può giungere inaspettato rispetto alla sua immagine cinematografica e televisiva di maschio alfa, quando invece è proprio questo a rendere la sua scelta particolarmente interessante.
Perché il suo punto di vista su una giovane relazione omosessuale, ispirata a fatti realmente accaduti, è quello di un uomo adulto siciliano ed eterosessuale, intenzionato a evidenziare quei pregiudizi dei quali il suo film mostra le radici culturali e la persistenza tenace.
Fiorello ricrea un mondo e un momento nel passato che appartiene alla sua autobiografia con grande onestà e immediatezza, riportandoci ad un’epoca di ottimismo (sottolineata dalla marcia trionfale della nazionale di calcio verso la vittoria nel campionato mondiale) e di relativa spensieratezza che oggi sembrano fantascienza, e soprattutto ricordandoci la luce, i colori, le temperature ambientali ed emotive di quelle estati al sud che sembrava non dovessero finire mai, e in cui i giovani potevano immaginarsi onnipotenti.
Fiorello e i suoi cosceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa tratteggiano tanto i vitelloni omofobi del bar e il patrigno violento quanto i genitori di Nino affettuosi, ironici e aperti agli altri, benché pronti a tramandare tradizioni che appartengono ad un patriarcato millenario. Personaggio pieno di ombre è invece la madre di Gianni, che ha già conosciuto la discriminazione nei confronti del figlio e vive nella paura di non saper proteggere né lui né se stessa dalla crudeltà della società patriarcale siciliana.
Fiorello dirige abilmente un cast di attori in gran parte sconosciuti al grande pubblico, fra cui spiccano i due giovani protagonisti – il luminoso Gabriele Pizzurro e il più oscuro Samuele Segreto – e Simona Malato nei panni di Lina, la madre tormentata di Gianni, ma anche il resto del cast, da Fabrizia Sacchi e Antonio De Matteo nei panni dei genitori di Nino a Enrico Roccaforte in quelli del patrigno, dal piccolo Raffaele Cordiano (il fratellino Totò) a Roberto Salemi (lo zio Pietro). Anche le scelte di regia sono azzeccate, mai manipolative, sempre alla ricerca di una rievocazione autentica di un ambiente ed emozioni vivissime, anche nella memoria di chi racconta, mai banale o meramente estetizzante nelle inquadrature intrise di un sud riconoscibile, pieno di attenzione verso i personaggi e i dettagli. L’unico problema, per gli spettatori non siciliani, sarà capire il dialogo in siciliano stretto, che a volte richiederebbe sottotitoli.
Il risultato è una storia che ci ricorda cosa voglia dire essere maschio in una cultura mediterranea tradizionale, e con garbo gentile ma anche con inattesa crudeltà, fuori da ogni illusione bucolica, ci fa presente che nella Sicilia degli anni Ottanta (e anche oggi, anche a Nord di Crema) non fosse (e spesso ancora non sia) possibile chiamare i sentimenti e le persone con il loro nome, senza pagare per questo un prezzo altissimo.

FILM: L’APPUNTAMENTO

In rilievo

VENERDI 21 APRILE 2023
SABATO 22 APRILE 2023
DOMENICA 23 APRILE 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00
Un film di Teona Strugar Mitevska
Con Jelena Kordic, Adnan Omerovic, Labina Mitevska, Ana Kostovska
Genere Drammatico
Durata 95 min.
Nazione Danimarca, Belgio, Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina, Macedonia
Distribuzione Teodora Film

UN FILM DI FORTE INTENSITÀ EMOTIVA IN GRADO DI PORRE QUESITI UNIVERSALI OLTRE A QUELLI DI ORIGINE STORICA.
Recensione di Giancarlo Zappoli
Asja, una donna quarantenne di Sarajevo, si iscrive ad un’organizzazione che si occupa di favorire l’incontro con persone dell’altro sesso. Quando Zoran, il suo partner selezionato, si presenta avrà modo di scoprire un’amara verità: è l’uomo che, nel 1993, le sparò ferendola in modo grave.
Teona Strugar Mitevska porta nuovamente sullo schermo la condizione della donna affrontandola da una diversa prospettiva sia storica che sociale.
C’è qualcuno che osserva dall’alto la fossa di un cantiere ripreso di schiena con un’inquadratura verticale che rapidamente si allarga a tutto schermo per mostrarci il palazzo popolare sul cui tetto si trova per poi passare a ciò che sta guardando e a una donna che si siede nel bel mezzo delle macerie. Quella donna è Asja. Chi l’osserva siamo noi spettatori chiamati a farlo per tutta la durata del film e le macerie sono quelle prodotte dalle costruzioni edili che stanno trasformando, come verrà detto più avanti, il volto di alcune aree della città ma forse, simbolicamente, rappresentano dei massi difficili da rimuovere nell’animo e nella memoria di chi ha vissuto quel conflitto devastante.
La sceneggiatura, scritta con Elma Tataragic´, ci immerge da subito in uno dei due livelli della narrazione. Siamo in un edificio moderno attrezzato per ospitare degli incontri finalizzati a creare delle coppie sulla base di una serie di stimoli proposti da chi conduce. A questo piano collettivo verremo continuamente rinviati per tutta la prima parte del film anche quando i due protagonisti avranno iniziato il loro doloroso percorso di conoscenza reciproca. Asja non si fa proporre un partner qualsiasi. Lo ha già contattato online pensando di avere scelto e non sapendo di essere stata invece scelta. Come quella sera di tanti anni prima in cui era entrata nella traiettoria della pallottola che proprio chi si va a sedere dinanzi a lei ha sparato.
Con l’incontro/scontro tra queste due persone Mitevska ci ricorda che al di là del confine ad Est del nostro Paese c’è un mondo non ancora realmente pacificato. Le cronache recenti hanno riferito della crescente tensione tra Serbia e Kosovo ma la forza di un cinema come quello della regista, che è nata a Skopje nel 1974 e che quindi ha vissuto direttamente tutto quel periodo, è capace di offrirne una lettura tanto profonda quanto emotivamente forte. I quesiti che ci pone sono al contempo universali e localizzati.
Localizzati perché le ferite brutalmente inferte da un conflitto che ha visto esplodere odi etnici e religiosi che hanno portato a massacri e a violenze inenarrabili sembrano ancora aperte e a rischio costante di infezione a più di trent’anni dall’inizio delle ostilità. Basta poco per far sì che anche coloro che apparentemente pensavano ad altro tornino a rivivere quel passato e a far emergere una rabbia che ha continuato sotto le ceneri.
Sono anche però quesiti universali che, oltre a quello solo apparentemente secondario di uomini e donne che non riescono più a vivere una vita sentimentale se non sono eterodiretti, pone il problema della possibilità o meno del perdono. Come ha scritto il cardinale Zuppi: “È facile comprendere la disperazione di una vittima, mentre è molto più difficile entrare nella disperazione di chi ha commesso un reato”. È ciò che Mitevska cerca di fare riuscendovi e suggerendoci anche che la soluzione non si trova né nell’elidere il passato come se non fosse accaduto né nel farsi prendere da una frenesia solo apparentemente liberatoria. Il confronto a cuore aperto con se stessi e con l’altro è l’unico mezzo per poter almeno sperare di andare oltre ed essere, se non gli uomini o le donne più felici del mondo, almeno delle persone che hanno fatto il possibile per cercare una pace interiore. 

FILM: THE WHALE

In rilievo

VENERDI 14 APRILE 2023
SABATO 15 APRILE 2023
DOMENICA 16 APRILE 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00
Un film di Darren Aronofsky
Con Brendan Fraser, Sadie Sink, Hong Chau, Ty Simpkins
Genere Drammatico
Durata 117 min.
Nazione USA
Distribuzione I Wonder Pictures

TRA LA BIBBIA E “MOBY DICK”, ARONOFSKY SCEGLIE L’ECCESSO PER RACCONTARE IL SUO UOMO ALLA DERIVA.
Recensione di Roberto Manassero
Charlie è un uomo obeso di una cinquantina d’anni. Vive solo, passa le giornate seduto sul divano tenendo corsi di scrittura online, guardando la tv e mangiando compulsivamente. Nella sua vita ci sono Liz, amica infermiera che si prende cura del suo stato di salute sempre più precario, e la figlia Ellie, diciassettenne che ha abbandonato quando era bambina per seguire l’amore della sua vita, Adam, il cui successivo suicidio è alla causa della sua obesità. Sentendo la morte avvicinarsi Charlie decide di spendere il tempo che gli resta per riconciliarsi con Ellie, la quale non gli ha mai perdonato la sua scelta…
A 14 anni di distanza dal Leone d’oro per The Wrestler e dopo i passaggi di Il cigno nero e Madre!, Aronofsky torna in competizione a Venezia con la trasposizione di una pièce teatrale di Samuel D. Hunter, scritta e messinscena nel 2012.
Tra la Bibbia e “Moby Dick”, attraverso il lavoro del commediografo Hunter (che firma la sceneggiatura), in The Whale Aronofsky riprende il tema per lui abituale della deriva fisica come tramite dell’ascensione e della redenzione spirituale.
In questo nuovo film, interamente ambientato (a parte una breve sequenza onirica) nell’appartamento ingombro d’oggetti e di cibo del protagonista – un luogo anche al cinema predisposto come un vero e proprio palcoscenico – tutto ruota attorno al corpo fuori scala di Charlie, qui interpretato da Brendan Frazer: ingombrante, osceno, “disgustoso”, come si sente dire più volte nel film. Nascosto agli occhi dei suoi studenti, ai quali fa lezione senza videocamera, l’ex professore universitario che ha perso l’amore (del suo compagno, della sua famiglia, di sé stesso) e si è abbandonato a una fame insaziabile e a una morte certa, negli ultimi giorni di vita accetta che di mostrare la sua figura e aprire la sua casa alle persone che ancora gli restano: Liz, l’unica a stargli vicino dopo la morte di Adam (di cui era la sorella), Ellie, l’ex moglie Mary e anche Thomas, un giovane missionario entrato per caso nell’abitazione in un giorno di pioggia.
È lui, Charlie, come suggeriscono i continui richiami del testo a “Moby Dick”, la balena bianca, l’espressione, cioè, di un male inesplicabile, la parte oscura di sé stessi in questo caso finita spiaggiata su un divano, a masturbarsi guardando film porno, a mangiare pizza consegnata sul pianerottolo, con l’ipertensione e il cuore vicino al collasso. Ed è lui, ancora, come dice Thomas allo stesso Charlie, l’uomo della Bibbia che ha fatto della sua libertà un’occasione per vivere secondo la carne, rinunciando apparentemente all’amore.
Eppure, tra questi due testi alla base della cultura americana, Charlie sa di aver generato il suo corpo deforme (interamente realizzato con trucchi prostetici applicati al fisico possente di Frazer) proprio per amore – o meglio, per mancanza d’amore – e che dunque in lui c’è una contrapposta spinta al bene e alla redenzione; un’anima divisa in due che conferma la natura intimamente religiosa (se non propriamente cristologica) dei personaggi di Aronofsky.
Le due ore di The Whale – film pensato e realizzato durante le restrizioni per la pandemia, come dimostra la sostanziale unità di spazio – raccontano dunque l’ultima settimana di passione di un uomo finito, il suo tentativo di compiere finalmente del bene. E lo fanno in maniera concitata, iper-dialogata, eccessiva a livello di recitazione (soprattutto da parte della giovane Sadie Sink di Stranger Things, mentre Frazer è inevitabilmente più trattenuto) e più scontata a livello di messinscena. Aronofsky sceglie infatti il formato semi-quadrato per costringere il corpo di Charlie nelle inquadrature, ma muove spesso la macchina da presa con morbide carrellate togliendo perciò rigore al suo film.
E l’inevitabile accelerazione drammatica del finale, con una conclusione dai toni decisamente eccessivi, sgancia il film dalla tradizione letteraria e culturale americana, privando Charlie della sua unica forza, vale a dire la consapevolezza del suo corpo anche nei momenti d’abbandono, e consegnandolo finalmente libero a un destino in realtà posticcio. 

FILM:MIXED BY ERRY

In rilievo

GIOVEDI 6 APRILE 2023
VENERDI 7 APRILE 2023
SABATO 8 APRILE 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
Ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00
Genere: Commedia
Anno: 2023
Regia: Sydney Sibilia
Attori: Luigi D’Oriano, Giuseppe Arena, Emanuele Palumbo, Francesco Di Leva, Cristiana Dell’Anna, Adriano Pantaleo, Chiara Celotto, Greta Esposito, Fabrizio Gifuni
Paese: Italia
Durata:110 min
Distribuzione: 01 Distribution
Sceneggiatura: Sydney Sibilia, Armando Festa
Fotografia :Valerio Azzali
Montaggio: Gianni Vezzosi
Musiche: Michele Braga
Produzione: Groenlandia con Rai Cinema

L’amore per la musica. la fratellanza e la famiglia al centro di Mixed by Erry, il film di Sydney Sibilia che racconta la storia dei primi pirati napoletani che con le loro compilation conquistarono l’Italia. recensione di Daniela Catelli.
Per come la pensa la sottoscritta, dovrebbero esserci più registi come Sydney Sibilia nel cinema italiano. Veri e propri archeologi metropolitani, capaci di portare alla luce storie quasi dimenticate ma vitali, originali e drammaticamente divertenti, che raccontano molto del nostro Paese e parlano a più generazioni. E che lo fanno, per di più, senza annoiare, con un senso del ritmo e dello spettacolo sempre presente. Così, dopo L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, ma a parer nostro in modo migliore, torna finalmente al cinema Mixed by Erry, quinto film del regista esploso con la trilogia di Smetto quando voglio, a ricordarci che è esistita un’epoca digitale in cui la musica era un oggetto fisico, da comprare, scambiare, regalare tra amici e fidanzati, e nel nastro di un’audiocassetta erano rinchiusi sogni e speranze di una generazione.
Anche se non è esattamente tale, il film ha le basi di una storia di riscatto, quello di tre fratelli cresciuti nel rione Forcella nella Napoli degli anni Ottanta, con una madre giovane e protettiva e un padre che campa “onestamente” vendendo al mercato agli acquirenti whisky a base di té. Una piccola truffa, per evitare di finire in giri più brutti e pericolosi, che sembra il destino di molti che vivono nel quartiere. Per Enrico Frattasio (Luigi D’Oriano), il più timido dei figli, appassionato cultore di musica fin da bambino, il sogno è quello di diventare un deejay, mestiere improbabile per uno come lui. Ma una passione non si può spegnere, ed Enrico, che all’inizio le fa solo per amici e parenti, continua a creare compilation personalizzate delle hit del momento, poi coi fratelli mette su un negozio e infine una vera e propria impresa industriale (e professionale) di vendita, dando lavoro a centinaia di persone sottratte al contrabbando di sigarette. La loro ascesa sembra inarrestabile, le audiocassette Mixed by Erry sono richiestissime ovunque e la loro necessità di ingenti quantitativi di nastri vergini desta l’attenzione delle grandi industrie del Nord. Il loro acerrimo nemico – in un momento in cui non esiste una legge che tuteli il diritto d’autore dalla pirateria è un finanziere, disposto a tutti pur di fermarli.Fin dall’inizio del film – che non ha nessuna ambiguità sul tema della pirateria – sappiamo che non andrà a finire bene per Enrico e i suoi fratelli, oggi sulla sessantina e impegnati in commerci più leciti. Ma quello che conta è altro: la ricostruzione (perfetta) di un’epoca in cui c’erano anche grandi gioie collettive (lo scudetto del Napoli) e una creatività in ebollizione che cercava di reinventare la vita in una città divisa tra tragiche alternative, stereotipi centenari e drammatici problemi reali, con una voglia di riscatto che negli anni Novanta fece della capitale campana uno dei centri della vita culturale del Paese. C’è una voglia di vivere feroce, di divertirsi, ballare, stare in compagnia e di emergere (per molti cantanti neomelodici entrare in una compilation mixed by Erry era come vincere una gara canora). Chiunque abbia vissuto a Napoli in quegli anni ricorda il clima che vi si respirava e le bancarelle colme di queste cassette, così diffuse e ambite da dare origine addirittura a copie contraffatte, primo caso di un pirata piratato nella storia della falsificazione. I nastri di Enrico Frattasio erano registrati in modo professionale, copie fedeli degli originali, introdotti dalla sua voce e con tracce bonus. Il colmo si raggiungeva durante il festival di Sanremo, quando, a manifestazione ancora in corso, le compilation delle canzoni in gara era già in vendita.
Tutto questo e non soltanto – l’amicizia, la fratellanza, l’importanza degli affetti famigliari – viene raccontato da un film che è la perfetta fotografia di un’epoca e parla a più generazioni: dai quarantenni come il regista ai coetanei dei fratelli Frattasio, ma anche ai ragazzi di oggi, affascinati dal revival di questi oggetti vintage e in apparenza preistorici come i nastri audio e i walkman, in un periodo in cui la musica è solo un file che chiunque può ascoltare gratuitamente. Un po’ quello che è successo anche al cinema con l’arrivo delle piattaforme streaming: per chi lo ha vissuto, niente potrà mai sostituire il fascino dell’esperienza collettiva in una sala comune di fronte a un grande schermo. E in modo analogo alle canzoni, possedere su un hard disk deperibile i film in versione digitale non è la stessa cosa dell’andare ad acquistare, in un negozio, la prima videocassetta o il dvd del nostro cult movie, magari per regalarlo a una persona cara. Mixed By Erry è però, al di là di tutto quello che ci fa venire in mente, un’esperienza godibilissima: divertente, a tratti commovente, scritto, girato e recitato benissimo, a partire dai tre sconosciuti protagonisti ventenni (c’è in D’Oriano un’eco della timidezza del primo Troisi che ci ha colpito e meritano la citazione anche il concreto Peppe di Giuseppe D’Arena e il più borderline Angelo di Emanuele Palumbo), con una colonna sonora d’epoca da paura, ottime track originali firmate da Liberato, una fotografia e una cura per il dettaglio che colpiscono per come sanno rendere l’atmosfera del periodo e ci convincono che la persistenza dei ricordi in certe persone (Sibilia era bambino negli anni di cui racconta) è più efficace e veritiera della dichiarata meticolosità delle ricerche che spesso producono ricostruzioni ridicole come quelle di House of Gucci.
L’impresa meridionale dei fratelli Frattasio non poteva trovare casa migliore che in Groenlandia, la società creativa di Matteo Rovere e Sydney Sibilia, cui Raicinema ha fornito il necessario supporto per realizzare al meglio questo film. Ultima nota sul cast: una bella sorpresa Adriano Pantaleo e Cristiana Dell’Anna nel ruolo dei genitori, splendido il piccolo ruolo dell’esponente della Milano da bere di Fabrizio Gifuni e a tratti esilarante il ritratto del buono/cattivo Fortunato Ricciardi di Francesco Di Leva, uno degli attori più talentuosi e trasformisti in circolazione. E mi raccomando: siete già abituati coi cinecomic Marvel, dunque non uscite appena partono i titoli di coda perché c’è una scena bonus che svela uno dei misteri che fanno impazzire il finanziere nella storia. Anche in questo caso, come in altri momenti del film, non ci chiediamo dove finisca la realtà e dove inizi la fantasia, che è un altro dei motivi per cui ci è piaciuto così tanto.

FILM:GLI SPIRITI DELL’ISOLA

In rilievo

VENERDI‘ 31MARZO 2023
SABATO 1 APRILE 2023
DOMENICA 2 APRILE 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00


Genere:Commedia, Drammatico
Regia:Martin McDonagh
Attori:Colin FarrellBrendan GleesonKerry CondonBarry KeoghanPat ShorttGary LydonSheila FlittonJon KennyDavid PearseAaron Monaghan
Paese:Irlanda, Gran Bretagna, USA
Durata:114 min
Distribuzione:The Walt Disney Studios
Sceneggiatura:Martin McDonagh
Fotografia:Ben Davis
Montaggio:Mikkel E.G. Nielsen
Musiche:Carter Burwell
Produzione:Searchlight Pictures e Film4 presentano, in associazione con TSG Entertainment, una produzione Blueprint Pictures

UNA TRAGICOMMEDIA DISPERATA E ISPIRATA, METAFORA DELLA DIVISIONE FRATRICIDA CHE SEGNA L’IRLANDA DAGLI ANNI DELLA GUERRA CIVILE.
Recensione di Marianna Cappi
Irlanda, 1923. I migliori amici Pádraic e Colm s’incontrano da una vita alle due del pomeriggio per qualche pinta al pub e le solite chiacchiere. Un giorno, però, Colm non apre la porta di casa all’amico, e in seguito, costretto a fornire una spiegazione, afferma di averne abbastanza di lui e di non voler spendere un minuto di più in sua compagnia. Devastato e incapace di accettare la cosa, Pa’draic cerca l’aiuto della sorella e poi del parrocco perché parlino con Colm, ma quest’ultimo non solo non ritratta, ma minaccia il peggio se Pa’draic non lo lascerà in pace. Mentre sul continente infuria la guerra civile, sull’immaginaria isola di Inisherin, che si è sempre considerata al riparo dal conflitto, l’allontanamento di due amici fraterni innesca ugualmente una serie di conseguenze e un’escalation di atrocità.
Martin McDonagh riunisce la coppia protagonista del suo film d’esordio (In Bruges) e la blocca in un avamposto rurale e isolato, al largo della costa occidentale dell’Irlanda (le location reali sono le le isole di Inishmore e Achill), insieme ad una manciata di pochi altri abitanti incattiviti dalla solitudine, suggestionati dalle leggende, terrorizzati da una vita che spesso si traduce in quotidiana attesa della morte.
Con la stessa penna appuntita e lo stesso nero umorismo che aveva provato di saper maneggiare in Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, il regista britannico scrive una parabola sul dialogo tra sordi nella quale commedia e tragedia si rincorrono e sovrappongono, in un microcosmo che è specchio ed effetto della storia d’Irlanda.
Chi sragiona di più, fra questi sentieri erbosi controllati da una statua della Madonna e da una vecchia con la pipa, dove i giovani sono contrari alla guerra e al sapone, non ci sono donne né cultura, e la solitudine è così imperante che persino gli animali tentano di entrare in casa in cerca di compagnia? È più ottuso Pádraic, che si comporta come un fidanzato scaricato, geloso e ferito, o Colm Sonny Larry, che teme di non aver più molto tempo da sprecare e si sveglia un giorno pieno di velleità artistiche e stufo delle chiacchiere inutili, fossero anche quelle del suo unico amico? Quel che è certo è che entrambi tengono radicalmente fede alla parola data, anche quando questa parola è maledettamente stupida.
Colin Farrell e Brendan Gleeson, ribaltamenti antieroici di Michael Collins e Eamon de Valera, sono gli strepitosi protagonisti di questa riflessione sui compromessi dell’amicizia e le diaboliche tentazioni dell’individualismo, annegata nello humour e investita di fascino e di libertà dall’ambientazione e dalla scelta dell’epoca. Una barca a vela di legno, che i venti del talento e gli spiriti dell’ispirazione fanno volare veloce e leggera dentro la tempesta. 

FILM: UN UOMO FELICE

In rilievo

VENERDI’ 24 MARZO 2023
SABATO 25 MARZO 2023
DOMENICA 26 MARZO 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera ARCI 2022/23 € 8,00

Un film di Tristan Séguéla
Con Fabrice LuchiniCatherine FrotPhilippe KaterineARTUS
Genere Commedia
Durata 89 min.
Nazione Francia 2023.
Distribuzione Teodora Film


«Un uomo felice» di Fabrice Luchini: sorrisi ma niente toni da farsa sulla crisi d’identità di genere
di Paolo Mereghetti
Non è la prima volta che Fabrice Luchini (da anni, il miglior attore francese) porta sullo schermo un sindaco (indimenticabile il suo primo cittadino in cerca di consigli in «Alice e il sindaco») né è la prima volta che il cinema francese — anche in questo molto più capace di quello di casa nostra di misurarsi seriamente con il mondo che ci circonda: pensateci sceneggiatori e registi nostrani, pensateci! — porta in scena i problemi politici di chi si trova alle prese con la prova delle elezioni comunali (come per esempio Isabelle Huppert in «La promessa – Il prezzo del potere»). Ma quello che capita a Jean Leroy (Luchini appunto) in «Un uomo felice» proprio quando decide di ricandidarsi per la terza volta a sindaco di Montreuil-sur-Mer (un paesino di nemmeno 3mila abitanti nel dipartimento Pas de Calais) non se lo immaginava nessuno.
Seduto al ristorante, mentre cerca l’occasione giusta per dire alla moglie Edith (Catherine Frot) che dovranno ancora rimandare la vacanza in camper che le aveva promesso perché ha deciso di ripresentarsi al Comune, è lei invece a rubargli la parola e a spiegargli che per tutta la vita, fin da quando era bambina, aveva soffocato il suo desiderio di sentirsi un uomo. E che arrivata ai sessanta, con i tre figli ormai cresciuti e autonomi, ha deciso di intraprendere quella transizione che aveva sempre contrastato. Non si possono descrivere ma solo vedere sullo schermo le metamorfosi dell’espressione di Luchini che passa dallo stupore all’incredulità allo sbigottimento alla paura fino al malcelato disprezzo. Lui non può crederci. Non vuole crederci, anche perché politicamente Jean non è proprio quello che si dice un «progressista». La sua campagna elettorale è fondata sui valori più tradizionali anche per contrastare l’avversario alla carica di sindaco, più giovane e più «aperto» di lui, e Jean non prevede certo quello che gli sta preparando la moglie: al suo ritorno a casa gli si presenta vestita da uomo, con un bel paio di baffi posticci, decisa a farsi chiamare solo Eddy.
A questo punto, l’aspirante sindaco passa attraverso tutti i possibili stati, dalla rabbia alla disperazione alla rassegnazione, mentre il suo braccio destro Francis (Philippe Katerine) e l’improbabile addetto alla comunicazione digitale Thomas (Artus Solaro) cercano di imbastire una qualche strategia per la comunicazione elettorale (comico lo spot in cucina).
Fino al giorno in cui accade l’imprevisto: Eddy, vestita da uomo, buca una gomma davanti a una centrale nucleare e chiama il marito per aiutarla a sostituire il copertone. E per ringraziarlo gli stampa un bel bacio sulla bocca (anche perché lei continua ad amarlo ed è con lui che vorrebbe continuare a fare sesso) senza sapere che le telecamere di sorveglianza registrano tutto. Dando il via a una serie di pettegolezzi in città che mettono violentemente in crisi la popolarità di Jean. Come ne uscirà?
Diretto da Tristan Séguéla e scritto da Guy Laurent e Isabelle Lazard, il film gioca più con la sorpresa e la curiosità dello spettatore che con la voglia di approfondire. Sa graffiare ma senza voler davvero cercare il passo di una vera commedia di costume, ma sa evitare di scadere nella farsa: le amiche transgender del gruppo di supporto di Edith/Eddy sono sempre raccontate con un certo pudore e il fatto che Catherine Frot si mostri anche con una barba non proprio folta conferma un certo coraggio nell’attrice o comunque la mancanza di ogni preoccupazione per la propria immagine. Non siamo certo dalle parti della «Donna scimmia» di Ferreri (la cui crudeltà e cattiveria sono lontanissime dalla perseguita carineria di Séguéla) ma questo «Un uomo felice» regala comunque un’ora e mezza di sorrisi e qualche simpatica risata.
Per merito soprattutto di un Luchini ancora una volta bravissimo. È grazie a lui che il film non perde mai la sua credibilità e nonostante un finale conciliante e rassicurante (ma non certo nella direzione che si potrebbe immaginare) è lui che sa rendere convincente un invito alla tolleranza e alla apertura mentale che non scade mai nella buffoneria.

FILM:TUTTO IN UN GIORNO

In rilievo

CINEMA ARCI FROSINONE
VIA P.L.da PALESTRINA 75
FROSINONE


VENERDI’ 17 MARZO 2023
SABATO 18 MARZO 2023
DOMENICA 19 MARZO 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
UNA STORIA DI SOLITUDINI A CONFRONTO, MA ANCHE DI GRANDE SOLIDARIETÀ. CON UNA PENELOPE CRUZ IN STATO DI GRAZIA.
Recensione di Claudia Catalli
Tre persone devono fronteggiare la realtà di uno sfratto e hanno 24 ore di tempo per capire come fare. C’è Rafa, un avvocato attivista diviso tra lavoro e la relazione di coppia. C’è Azucena, una madre disperata dall’idea di perdere la propria casa. Infine Teodora, una madre dimenticata che tenta di mettersi in contatto con suo figlio.
In Spagna, ci sono circa 40 mila sfratti all’anno, più di 100 al giorno. Sceglie di focalizzarsi su questo fenomeno l’attore Juan Diego Botto, che debutta alla regia raccontando un intreccio di storie e un incrocio di disperate solitudini.
Sceglie, in altre parole, di spostare la cinepresa verso i margini, come il titolo stesso preannuncia, verso tutte quelle persone non abbienti che lottano per sopravvivere. Persone comuni, concrete, che si scontrano con i problemi di ogni giorno, a cui viene notificata un’ingiunzione di sfratto. Hanno ventiquattrore per capire come uscirne, o almeno come protestare. È quello che fa, convinta e disperata, Azucena, madre di famiglia infuriata con la banca che reclama la sua casa e terrorizzata alla sola idea di perderla.
È sposata con un operaio argentino, interpretato dallo stesso regista Juan Diego Botto, che guadagna quattro euro l’ora e non ha la più pallida idea di come uscire da una situazione tanto drammatica. La interpreta una Penelope Cruz in stato di grazia, che ricorda a tratti il personaggio di Italia in Non ti muovere e a tratti le grandi attrici del cinema italiano di ieri, su tutte Anna Magnani con cui condivide il taglio di capelli e un’espressività convincente e a volte commovente.
La vediamo tormentarsi, scoppiare in crisi di pianto, ribellarsi, protestare, confessare con le lacrime agli occhi che è pronta ad essere cacciata, pur di non lasciare la sua casa. Vive la sua stessa condizione Teodora, nonna e madre di un ex negoziante reinventatosi operaio dopo aver avuto una serie di problemi seri con il negozio. Roso dalla vergogna e dal senso di colpa conseguente al fallimento, si rifiuta di rispondere alle molteplici chiamate di sua madre. C’è poi Rafa, interpretato dal sempre superlativo Luis Tosar, un avvocato attivista che prova ad aiutare chi ha problemi altrettanto seri, come una ragazza araba a cui minacciano di togliere la custodia della figlia. È uno di quei pochi che considera il proprio lavoro come una missione in cui gettarsi a capofitto, a discapito del tempo per la vita privata e per una moglie alle prese con una gravidanza complicata, lasciata spesso da sola.
Anche il figlio di lei ce l’ha con lui, insieme si confronteranno duramente per imparare a volersi bene. È una storia drammatica di solitudini a confronto, ma anche di grande solidarietà, quella che spinge un’orda di persone a schierarsi accanto agli sfrattati, contro la polizia e le banche. A scendere in strada per protestare pacificamente ma con convinzione, a tendere la mano a chi è più in difficoltà.
Al suo primo film Botto si schiera dalla parte degli ultimi e dei più fragili, firmando un film le cui istanze ricordano da vicino cineasti impegnati alla Ken Loach, capace di inchiodare alla sedia nell’attesa di capire quale piega prenderà questo thriller sociale che racconta, in realtà, ciò che accade ogni giorno. In Spagna, ma non solo.
È un film che fa riflettere, che non si cura di compiacere lo sguardo di chi guarda né si sforza di essere consolatorio, va giù dritto a raccontare una realtà durissima, scomoda, saltando ogni tentazione di retorica e limitandosi a mettere in scena con sobrietà, ma anche un tocco di grande umanità, storie di vita quotidiane. C’è di base l’intento dichiarato di mostrare come una situazione di grande stress economico possa mettere a repentaglio tutto: relazioni di coppia e familiari, certezze personali, persino la voglia di andare avanti. Cruz che grida “Vergogna” a fine film si fa portavoce di tutti coloro che, con estrema dignità, tentano di tirare avanti ogni giorno, come posso, meglio che possono, malgrado le immense difficoltà economiche e non solo che infestano le loro, le nostre, esistenze.

FILM:DECISION TO LEAVE

In rilievo

VENERDI’ 10 MARZO 2023
SABATO 11 MARZO 2023
DOMENICA 12 MARZO 2023
orario proiezioni 18:00-20:30
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Park Chan-wook
Con Hae-il Park, Wei Tang, Go Kyung-pyo, Yong-woo Park.
Genere Drammatico
Durata 138 min.
Nazione Corea del sud
distribuzione Lucky Red

PARK CHAN-WOOK SORPRENDE CON UN ROMANTICO NEO-NOIR CHE HA IL RESPIRO DEI CLASSICI E IL LINGUAGGIO DEL PRESENTE.
Recensione di Emanuele Sacchi

Hae-joon è un detective infallibile e un marito insoddisfatto: quando si trova alle prese con un caso di suicidio, ritiene che si tratti in realtà di omicidio. Per questo indaga sulla moglie cinese della vittima, Seo-rae, ma se ne innamora all’istante. Attraverso una sottile rete di seduzione, Seo-rae sembra soggiogare Hae-joon, che però ha un’intuizione che potrebbe ribaltare il corso dell’indagine.
La capacità dei grandi autori è anche quella di comprendere quando una vena si è esaurita ed è tempo di voltare pagina e trovare nuovi stimoli.
Da troppi anni, susseguenti alla cosiddetta “trilogia della vendetta”, Park Chan-wook è spesso stato vittima del proprio stile, innamorato di un manierismo incline a una certa stanchezza creativa. Una filmografia di eccessi e barocchisimi, tendente al grandguignol, che trova un brusco arresto in un film che pare l’esatto opposto del Park che eravamo abituati a conoscere.
Sobrio e asciutto nella messa in scena, hitchcockiano nello spirito di un neo-noir che guarda consapevolmente ai classici del genere ma li veste di panni contemporanei: un uomo oggettivizzato e passivo, disarmato di fronte all’iniziativa di lei, e i dispositivi elettronici – chat e messaggi vocali, ma anche geolocalizzazione e tracciamento degli spostamenti – come mezzo principe (e talora anche un fine) nello svolgimento della loro liaison proibita. Quel che non ci si aspetterebbe da Park, e che invece giunge, è un film all’insegna del less is more, in cui la gratuita spettacolarizzazione è fuggita, tanto nel lato thriller che in quello romantico.
Non mancano i movimenti di macchina magistrali e le riprese dall’alto mirabili, ma la misura con cui sono gestite è inedita. Lo sviluppo di quest’ultimo, in un crescendo di messaggi in codice e sguardi, di ammiccamenti e intese invisibili, è costantemente gestito con delicatezza, in contrasto con le macabre vicende poliziesche che permettono ai due amanti prima di conoscersi e poi di frequentarsi.
E quindi in questo nuovo Park, distantissimo dal precedente Mademoiselle, il sesso è solo suggerito da momenti di complicità allusivi, più erotici di quanto lo sarebbe una scena esplicita.
Benché le situazioni possano ricordare il celebre film di Paul Verhoeven, Seo-rae è tutt’altro che la Katherine Tramell di Basic Instinct: altrettanto manipolatoria e calcolatrice nelle trame nere che escogita, ma sorprendentemente romantica in fatto di sentimenti.
Le amorevoli cure che Hae-joon e Seo-rae si riservano reciprocamente – quali il sushi condiviso, o l’aiuto a trovare sonno – riguardano una sfera ancor più intima dell’amplesso, rivelando senza il ricorso alla parola il disegno beffardo del destino, che pone due anime gemelle all’estremo opposto della legalità.
Con Decision to Leave si torna ad accogliere tra i maggiori autori in circolazione un nome amato dai cinefili, spesso oggetto di fanatismi mal riposti e accanimenti altrettanto inutili. Un Park rinnovato e talora quasi irriconoscibile, arresosi al potere di suggestione che è proprio solo degli amori irrealizzabili, mentre gira il film più romantico del 2022.

FILM: CORPI LIBERI a cura di Arcigay “Stonewall” Frosinone

In rilievo

Regia di Fabio Massimo Lozzi
Un film Genere Documentario
Nazione Italia,
Durata 110 minuti.
ingresso libero
Vi aspettiamo Martedì 7 Marzo alle 20, presso il cinema Teatro Arci. Proietteremo il docufilm di Fabio Massimo Lozzi che non solo racconta la nascita del primo Sapienza Pride ma ci apre al mondo delle nuove generazioni che vogliono far sentire la loro voce.
A seguire dialogheremo con il regista. 

FILM:HOLY SPIDER

In rilievo

VENERDI’ 3 MARZO 2023
SABATO 4 MARZO 2023
DOMENICA 5 MARZO 2023
orario proiezioni 18:00-20:30
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Ali Abbasi
Con Mehdi Bajestani, Zahra Amir Ebrahimi, Arash Ashtiani, Forouzan Jamshidnejad
Genere Thriller
Durata 117 min.
Nazione Francia, Germania, Svezia, Danimarca
Distribuzione Academy Two

HOLY SPIDER (2022) Trailer ITALIANO del Film Thriller di Ali Abbasi | AL CINEMA – YouTube

UN THRILLER AFFASCINANTE, LUCIDO E METODICO CHE SA INTRIGARE ATTRAVERSO L’AMBIVALENZA.
Recensione di Tommaso Tocci

Siamo a Mashhad, seconda città più grande dell’Iran e importante sito religioso. Nel 2000, un serial killer locale inizia a prendere di mira le prostitute per strada, strangolandone diciassette dopo averle attirate una ad una a casa sua. La stampa lo chiama “il ragno”, e tra i giornalisti che coprono il caso c’è Rahimi, una donna che viene da Teheran e si mette sulle tracce dell’assassino. L’uomo si rivelerà essere Saeed Hanaei, ex-militare convinto che Dio gli abbia affidato la missione di liberare la città dalle donne indegne che vendono il proprio corpo.
Il thriller e in particolare il sottogenere relativo agli assassini seriali si arricchiscono con Holy Spider di un esemplare affascinante, che grazie al cinema “ibrido” dell’autore di sensibilità europea Ali Abbasi mescola spunti narrativi familiari al grande pubblico con una proficua esplorazione della misoginia radicata nella società iraniana. Il risultato è un’opera lucida e metodica che non somiglia a nessuno dei suoi ingredienti.
Abbasi si era fatto notare nel 2018 con il film svedese Border, mentre qui torna ad avere a che fare con l’Iran che gli ha dato i natali. Proprio all’epoca dei fatti, Abbasi stava per lasciare il suo paese e iniziare il percorso che l’avrebbe portato a stabilirsi in Svezia e poi in Danimarca. La storia di Saeed Hanaei, che fu poi catturato e giustiziato, è rimasta nota per la trasparenza e l’apertura con cui l’uomo rivendicò i suoi propositi omicidi, e per l’assurdo supporto che i suoi proclami religiosi gli garantirono presso una parte dell’opinione pubblica.
Abbasi omaggia questo aspetto di auto-evidenza della storia, spogliando la mitologia cinematografica del serial killer di ogni mistero: il suo Saeed è protagonista del film da subito, tanto quanto l’eroina Rahimi che gli dà la caccia, e prima che i rispettivi sentieri entrino in rotta di collisione c’è tutto il tempo di sviscerare la figura di un uomo tormentato dai traumi della guerra, insoddisfatto della direzione della sua vita, e carismatico nel guadagnarsi l’approvazione della moglie e del figlio prima ancora che degli altri cittadini di Mashhad, pronti a scagliarsi contro il basso valore morale e il cattivo esempio delle prostitute uccise.
Una dualità, quella delle sofferenze domestiche – a tratti patetiche – di un uomo piccolo che sembra poi farsi minaccioso assorbendo l’energia misogina che si respira in strada, che è frutto del grande lavoro di Mehdi Bajestani, in un ruolo difficile non soltanto dal punto di vista cinematografico.
Il film lo incornicia spesso sulla moto, per strade che dovrebbero essere in Iran ma che invece sono state ricreate in Giordania (dove è più facile girare senza scendere a compromessi), e i cui fondali vengono spesso resi più morbidi dal fuori fuoco.
Abbasi conosce l’importanza di una regia d’effetto, e lavora in modo impeccabile sulla fotografia e soprattutto sulle musiche, poco legate al luogo e che dunque contribuiscono al paradosso di una storia ultra-specifica nel contenuto ma al tempo stesso ibrida e non del tutto identificabile nella forma.
Agli antipodi della precisione estrema di Fincher e del suo Zodiac, questo film di serial killer intriga attraverso l’ambivalenza, le cose che non dovrebbero essere, e quelle che non sono ciò che aspettavamo.

FILM:THE QUIET GIRL

In rilievo

VENERDì 24 FEBBRAIO 2023
SABATO 25FEBBRAIO 2023
DOMENICA 26 FEBBRAIO 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00

Un film di Colm Bairéad
Con Catherine Clinch, Carrie Crowley, Andrew Bennett, Michael Patrick Carmody
Genere Drammatico
Durata 97 min.
Nazione Irlanda
Distribuzione Officine Ubu

Irlanda. Cáit è una bambina di nove anni che cresce in una famiglia di contadini impoveriti. Taciturna e trasandata, è malvista dalle sorelle, dal padre disattento e dalla madre che si occupa del fratellino e di un nuovo bambino in arrivo. Con l’arrivo dell’estate e il termine della gravidanza della madre, Cáit viene mandata dai Kinsella, coppia senza figli che si è offerta di badare a lei. Accolta in un ambiente pulito e rassicurante, la bambina lega con Eibhlín, donna dolce e premurosa, mentre mantiene le distanze con il cupo ma gentile Seán. Con il tempo la bambina fiorisce e impara ad avere rispetto per sé stessa, trovando il modo anche di comunicare con Seán. Prima di tornare a casa conoscerà il segreto dei Kinsella e stringerà un legame ancora più forte con le uniche persone che hanno saputo amarla.
Il film è l’adattamento di “Foster”, un racconto breve della scrittrice Claire Keegan, pubblicato nel 2009 sul New Yorker e diventato in seguito un romanzo, qui adattato alla cultura e alla società dell’Irlanda del passato, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta.
The Quiet Girl è la storia di più incontri: della piccola Cáit con la donna che un giorno sarà, libera, bella, curiosa, anche velocissima nella corsa; della bambina con la madre che non ha mai avuto, la dolce Eibhlín, non più giovane, con un velo di tristezza negli occhi ma ancora pronta a concedere amore, e anche con il padre che la vita non le ha concesso, un uomo onesto come Seán, che dietro i modi spicci del contadino nasconde l’animo di chi sa cosa significhi prendersi cura di una persona, allevarla, guidarla, anche riprenderla.
Peccato che per apprezzarne la sottile costruzione narrativa del film, che comincia come il classico racconto drammatico sull’infanzia infelice di un’eroina degna di Dickens per poi virare in realtà su un racconto di formazione che non scade nel coming of age adolescenziale, bisogna superare l’ostacolo di una messinscena stucchevole, con cui il regista Colm Bairéad e del direttore della fotografia Kate McCullough hanno adattato le parole del racconto di partenza.
Se da un lato il film riesce per una volta a fuggire i cliché estetici legati alla rappresentazione del paesaggio irlandese, dall’altro si adagia su un uso altrettanto scontato e pigro di immagini freddamente composte, a cui la fotografia digitale dà un tono fasullo, tra riprese in controluce, sequenze in slow motion e un uso lezioso di particolari (i vestiti indossati da Cáit, l’attenzione per gli specchi d’acqua, i possibili pericoli del lavoro nella fattoria) dietro i quali si cela la svolta narrativa del finale.
Bairéad, che con il film ha vinto la sezione Generation Kplus dell’ultima Berlinale e fatto incetta di premi – ben sette – agli Irish Film & Television Academy Awards – si rivela così un bravo sceneggiatore più che un bravo regista, dal momento che proprio lo sviluppo del rapporto fra la protagonista e i suoi genitori acquisiti svela la finezza di una vicenda che sfiora tanto il film femminista (nel rapporto tra Cáit ed Eibhlín) quanto la possibile deriva della violenza domestica raccontata a tinte fosche.
The Quiet Girl ha inevitabilmente (e colpevolmente, vista la materia umana e narrativa a disposizione) la forma tradizionale del film per famiglie; nonostante ciò, grazie a una scrittura che lascia ai personaggi il tempo di crescere, offre allo spettatore il modo di abituarsi ai lori cambiamenti, riesce a comporre il ritratto dignitoso di tre individui – una bambina, una madre e un padre legati da un rapporto non di sangue, ma anche per questo vivissimo – colpiti dal dolore e dalla solitudine.

FILM: A LETTO CON SARTRE

In rilievo

VENERDì 17 FEBBRAIO 2023
SABATO 18 FEBBRAIO 2023
DOMENICA 19 FEBBRAIO 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Samuel Benchetrit
Con François Damiens, Ramzy Bedia, Vanessa Paradis, Gustave Kervern
Genere Drammatico
Durata 107 min.
Nazione Francia
Distribuzione I Wonder Pictures

UNA COMMEDIA SURREALE CHE FA SORRIDERE E SOSPIRARE, NELLA PIENA TRADIZIONE DEL CINEMA FRANCESE ESISTENZIALE.
Recensione di Tommaso Tocci
In una cittadina del nord della Francia che si affaccia sul mare, un gruppo di scagnozzi affiliati a un giro di malavita portuale si trovano alle prese con alcuni incarichi particolari, che li metteranno di fronte a insolite questioni di bellezza, arte e poesia. Jeff, il boss poeta, corteggia una cassiera del supermercato con i suoi versi. Tutto ciò mentre sua moglie si strugge e sua figlia sta per festeggiare il compleanno. La coppia formata da Poussin e Jesus è incaricata di convincere i compagni di scuola della ragazza a presenziare. Nel frattempo, Jacky deve recuperare i soldi di un debito da un uomo, ma finisce per invaghirsi di sua moglie e della sua passione per il teatro. Con la testa tra le nuvole e i pugni in tasca, con un business da portare avanti e con un mare in cui perdere lo sguardo: è il crocevia di un manipolo di criminali di provincia d’improvviso folgorati dalla sensibilità.
Il regista Samuel Benchetrit ne fa una commedia assurda e surreale che gioca con gli stereotipi della mascolinità, del genere gangster e della pretenziosità artistica.
Contenta di perdersi nell’incompiutezza per solidarietà verso i propri personaggi, A letto con Sartre è un’opera che fa sorridere e sospirare, nella piena tradizione del cinema francese esistenziale e umoristico.
Con le loro camicie a maniche corte un po’ smorte, i protagonisti nati dalla penna di Benchetrit abitano un mondo di privilegio ma con disagio, facendo i conti con la fallibilità del corpo e aspirando, forse, a qualcosa in più nell’anima. Una situazione che, unita al particolare connubio di humor e violenza, ricorda i territori esplorati dai Soprano di David Chase. Siamo però in Europa, e più in particolare in Francia; l’introspezione analitica non può essere la soluzione, ma solo un punto di partenza.
Eccoli allora, questi uomini, interrogarsi sulla condizione umana, sulla natura del cambiamento e della felicità, sulle qualità del verso alessandrino. Per non parlare di una pièce teatrale su Sartre, senza il quale non può esserci emancipazione ma i cui interpreti continuano a finire cadaveri. L’emancipazione, in fondo, la si può indirizzare anche a forza.
Benchetrit firma una sceneggiatura che vive di momenti e di frammenti, con tre storie che si intersecano e altre che si infilano nei pertugi (la deliziosa parabola di Eric Lamb, che regala la comparsata di Macaigne). Quando lo strano matrimonio tra il terreno e lo spirituale funziona, il tintinnio è limpido e originale; le altre volte, è una sorda stranezza comunque non priva di curiosità.
A letto con Sartre merita in particolare per il grande cast di caratteristi francofoni, che è impagabile vedere riuniti in tale abbondanza e con tale libertà. Bouli Lanners e Ramzy Bedia, Vincent Macaigne e Gustave Kervern (il quale da regista assieme a Benoît Delépine ha creato un sottogenere della commedia d’oltralpe che è parente di questo). Accanto a loro le signore, Vanessa Paradis e Valeria Bruni Tedeschi, che giocano ora a rafforzare lo stereotipo, ora a disfarlo. Tutti insieme, donano al film un fascino caotico e giocoso che è però anche sommesso, forse non pienamente sviluppato, e ben si adatta all’evocazione di un mondo che fa difetto a livello esistenziale 

FILM: L’INNOCENTE

In rilievo

VENERDì 10 FEBBRAIO 2023
SABATO 11 FEBBRAIO 2023
DOMENICA 12 FEBBRAIO 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Louis Garrel.
Con Roschdy Zem, Anouk Grinberg, Noémie Merlant, Louis Garrel
Genere Commedia
Durata 99 min.
Nazione Francia
Distribuzione Movies Inspired

COMMEDIA BEN RIUSCITA D’AMORE E DI RAPINE PER LA QUARTA REGIA DI UN LOUIS GARREL SEMPRE PIÙ MATURO.
Recensione di Tommaso Tocci
In quel di Lione, Abel lavora come guida in un acquario e non si è ancora ripreso dalla prematura scomparsa della moglie. Anche la madre Sylvie gli dà pensiero, visto che continua a sposare detenuti in serie. L’ultimo della lista è l’ex-rapinatore Michel, il quale appena uscito di prigione apre un negozio di fiori assieme a Sylvie. Abel però è convinto che ci sia sotto qualcosa di losco. Preoccupato per la madre, si mette a pedinarlo coinvolgendo un’amica, Clémence.
Alla quarta prova come regista, il celebre attore Louis Garrel si mostra sempre più a suo agio e capace di sperimentare.
Con L’innocent non si discosta da quei toni di dramma-commedia sentimentale per i quali ha un feeling innato (letteralmente, visto che appartiene a una famiglia reale del cinema francese), ma assieme al co-sceneggiatore Tanguy Viel li applica a delle situazioni da polar scanzonato e a una storia divertente e piacevole di ladri di caviale iraniano e attori della domenica.
Come sempre Garrel si ritaglia il ruolo da protagonista, ennesima variazione del ragazzo sognante e un po’ impacciato che sa interpretare a meraviglia. Qui è vincente la combinazione della sua titubanza reattiva (accentuata da un lutto ancora molto presente) con le caratterizzazioni sopra le righe degli altri tre attori, tutti ottimi. Roschdy Zem come sempre passa in scioltezza dal soave al minaccioso, lui ladro mai pentito che ha trovato l’amore, balla la salsa e ha un talento per il palcoscenico.
La veterana Anouk Grinberg è al suo gradito ritorno sulle scene nel ruolo di una madre e di una donna esuberante, mentre Noemie Merlant continua a nutrire una galleria di personaggi sfaccettati che dai tempi di Ritratto della giovane in fiamme hanno arricchito la sua immagine attoriale.
Amori, sentimento e melodramma non mancano e rappresentano una garanzia per gli appassionati del genere. Notevole però è stavolta il loro utilizzo, anche in chiave metanarrativa, come strumenti “del mestiere” in una rapina, nella quale ovviamente nulla va come dovrebbe per i personaggi mentre tutto fila alla perfezione dal punto di vista cinematografico: una sequenza estesa e calibrata alla perfezione nella regia, nella scrittura e nella recitazione, forse tra le cose migliori firmate fin qui da Garrel.
Già con i precedenti e ben riusciti L’uomo fedele e La crociata Garrel si era costruito un mini-universo personale di cinema intimo e autonomo, che parla di uomini e di donne, di impeto e di passività, e in cui il suo Abel, nome che ritorna, è ormai un alter ego fluido da indossare come un cappotto comodo. La scomparsa di Jean-Claude Carrière, co-sceneggiatore del suo secondo e terzo film, lo lancia su nuove strade che però restano familiari e si ripropongono sotto luce diversa, come quelle su cui in L’innocent si inseguono due furgoni della polizia penitenziaria, con l’idea, ora e sempre, di fare un po’ di rumore e dirsi ti amo. 

FILM: THE FABELMANS

In rilievo

VENERDì 3 FEBBRAIO 2023
SABATO 4 FEBBRAIO 2023
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2023
orario proiezioni 18:00-20:45
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00

UN MONUMENTO ALLA MITOLOGIA DEL SUO AUTORE CHE FIRMA QUI UN’INTIMA LETTERA D’AMORE E UN’EMOZIONANTE AUTOBIOGRAFIA.
Recensione di Marzia Gandolfi
1952. Sammy Fabelman ha sei anni e al cinema non ci vuole andare, ha paura di affrontare quel mondo di giganti. La madre gli assicura che i film sono sogni indimenticabili, il padre lo rassicura descrivendogli il prodigio di una macchina che fa muovere immagini fisse. Davanti al loro bambino, Mitzi e Burt assumono ciascuno il proprio ruolo: la poesia da un lato, la tecnologia dall’altro. In sala Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille fa il resto. Sam esce dal cinema e l’avvenire è aperto.
Recrutando come figuranti compagni di scuola e sorelle, comincia a girare western ed epopee belliche nel deserto dell’Arizona. Gli anni intanto passano e Sam, adolescente, scopre nel flusso dei suoi fotogrammi aspetti insospettabili della vita dei suoi genitori. Il padre, brillante ingegnere, vorrebbe seguire una promozione a Los Angeles, la madre, pianista che ha abbandonato la sua carriera per allevare i figli, vorrebbe restare a Phoenix. Il trasloco è inevitabile, il divorzio pure. Sam si rifugia nel cinema e in un’estate in 16mm prima di diventare grande e fare grandi film.
Ha la forza di un treno, quello delle origini (L’arrivée d’un train à La Ciotat) e quello di Cecil B. DeMille (Il più grande spettacolo del mondo), la vocazione al cinema di Steven Spielberg.
La favolosa sequenza di apertura di The Fabelmans pone la prima pietra: davanti al grande schermo gli occhi del piccolo protagonista si spalancano di spavento e di meraviglia per l’incredibile scena di un treno che percuote in piena corsa una vettura sui binari. L’ossessione di quella scena non lo lascerà più e non smetterà di riprodurla in miniatura con la sua prima cinepresa. Comincia da qui The Fabelmans, puramente spielberghiano e radicalmente intimo. Un film ad alto potere emozionale e ricco di ellissi che ‘colmano’ una mancanza e ricostruiscono quell’infanzia che il regista non ha mai smesso di reinventare nei suoi film.
È una lettera d’amore di Spielberg ai suoi genitori, The Fabelmans, a sua madre in particolare, a cui il film è dedicato. L’autore è nel pieno possesso delle sue capacità, sereno e finalmente pronto a girare ‘il suo’ racconto elegiaco e solare, attraversato da una felice malinconia. Spielberg è dappertutto, nella narrazione che scrive a quattro mani con Tony Kushner (Munich, Lincoln, West Side Story), e nella forma, meno (apparentemente) spettacolare e sensibilmente personale.
Il padre di Indiana Jones firma un’autobiografia romanzata, un’introspezione, un dizionario enciclopedico dei temi e dei motivi che coltiva da più di mezzo secolo: i volti meravigliati dei bambini, occhi spalancati e bocche socchiuse, i dialoghi scritti come massime (“Non basta amare una cosa, bisogna sapere prendersene cura…”), la perdita del conforto domestico come trauma irrimediabile, il confronto dei mingherlini di genio coi bellimbusti idioti e quell’incredibile senso visivo che gli permette di inventare immagini folgoranti. Una su tutte: le mani di un bambino che si fanno schermo per accogliere delicatamente un frame tremante, come un pulcino estratto dal suo guscio.
Spielberg è tutto lì, ‘in un pugno’ e in un film che affronta per la prima volta in maniera esplicita la sua infanzia. Niente alieni a deviare il racconto. Il regista esplora soprattutto le zone d’ombra perché sotto la gioia di vivere dei ‘favolosi Fabelmans’, come avrebbe titolato Orson Welles, si nascondono segreti e ferite.
In una sequenza, che è una variazione stordente del Blow-Up di Antonioni, il protagonista scopre che il suo clan è meno perfetto di quanto sembri. Sam monta un filmino di famiglia, girato in campeggio, e trova qualcosa che cambierà tutto, qualcosa che era sotto il suo naso ma che gli era sfuggito, qualcosa che la sua cinepresa ha catturato. Perché The Fabelmans descrive la fine dell’innocenza e la disintegrazione di una coppia a cui assiste impotente il figlio adolescente.
Il giovane Sam, che assomiglia a Steven come un fratello, pratica allora il cinema come un rifugio, un mezzo meraviglioso per fuggire e sublimare il mondo reale e le sue ingiustizie, un mezzo per rivelare anche la sua verità, per quanto cruda e crudele. Tre sono i temi essenziali, tutti avvincenti e personali, che strutturano questa saga intima: il potere incommensurabile dell’arte, l’antisemitismo brutale sperimentato dal protagonista al liceo, la rottura irreparabile tra i suoi genitori. Tre vene che alimentano tutto il suo cinema e fanno la somma con la lenta scoperta del continente femminile, un territorio ignoto e misterioso per il regista, scrutato tutta la vita da lontano. Si avventura cauto e dolce, Spielberg, sviluppando per la prima volta un grande personaggio femminile, complesso e irrequieto, a cui Michelle Williams apporta una fantasia, uno spasimo e una dismisura, di fragilità e disperazione trattenuta, che evoca la Gena Rowlands ‘under the influence’ di Cassavetes (Una moglie).
Centrato sul suo personaggio e sulla sua famiglia, i suoi eroi hanno uno spessore reale, una vera densità psicologica, The Fabelmans lascia fuori la Storia. Spielberg sottrae a sorpresa il suo destino dal contesto americano. Inventa un Paese studio, senza guerra del Vietnam, senza minaccia nucleare o ossessioni per il comunismo, senza lotta per i diritti civili. La radio diffonde solo musica, i giornali non esistono. I costumi, che evolvono con la morale, passano per uno spinello che Sam rifiuterà di fumare.
The Fabelmans è la testimonianza di un autore che ha dedicato la sua vita a una forma d’arte che credeva onnipotente e che oggi scopre fragile, una lezione di messa in scena che rivela il trucco del mestiere (Sam espone minutamente a un compagno come interpretare un ufficiale della Seconda Guerra Mondiale che prende coscienza di tutti i soldati Ryan che ha perso sul campo) mentre esegue il ‘prestigio’ (Burt osserva scosso una fotografia che ritrae la moglie sorridere all’altro uomo).
Il film si conclude con un irresistibile movimento della m.d.p. che svela l’orizzonte del nostro eroe. Il seguito lo conosciamo già e risuona tutto in quel nome, ben reale, che incide i titoli di coda. Monumento alla mitologia del suo autore, The Fabelmans non racconta che questo: come si diventa Steven Spielberg.

FILM: LE VELE SCARLATTE

In rilievo

VENERDì 27 GENNAIO 2023
SABATO 28 GENNAIO 2023
DOMENICA 29 GENNAIO 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Pietro Marcello
Con Juliette Jouan, Raphaël Thierry, Noémie Lvovsky, Louis Garrel
Genere Drammatico
Durata 100 min.
Nazione Francia, Italia
Distribuzione 01 Distribution

UNA FIABA SEMPLICE E ANTICA RACCONTATA SECONDO CODICI SCOMPARSI, CON GENTILEZZA ED EMPATIA.
Recensione di Paola Casella

Il soldato Raphael torna dalla Grande guerra al suo villaggio normanno, identificandosi come “l’uomo di Marie”. Marie non c’è più, ma c’è una bambina di cui Raphael ignorava l’esistenza: è sua figlia Juliette, che diventerà la sua ragione di vita. Per lei l’uomo ricomincerà a fare il falegname, dimostrandosi l’artigiano migliore della zona e un eccellente intagliatore. Ad aiutarlo c’è Madame Adeline, una vedova di buon cuore che accoglie entrambi nella sua fattoria. Ma Raphael, Juliette e Madame Adeline non sono ben visti nel villaggio, che considera l’uomo colpevole di omissione di soccorso, e le donne due streghe – come ogni “femmina non addomesticata”. Il loro è tuttavia un percorso di speranza, in attesa del passaggio delle vele scarlatte pronosticato a Juliette dalla maga del paese.
“Vele scarlatte” è un racconto dello scrittore russo Alexandr Grin che è un incoraggiamento a non arrendersi di fronte alle difficoltà, e Pietro Marcello ne rispetta la dimensione favolistica, valorizzandone però anche quella documentaria: fin dall’inizio la narrazione è intessuta di immagini d’archivio che mostrano il ritorno dei soldati e la vita dei primi anni del secolo scorso come un misto di operosità e ristrettezze.
La sceneggiatura è cofirmata da due scrittori, il consueto sodale Maurizio Braucci e l’autrice francese Geneviève Brisac, oltre alla giovane sceneggiatrice d’oltralpe Maud Ameline.
Le vele scarlatte è il primo film francese di Marcello e si cala profondamente nell’estetica della Normandia dei primi del Novecento, fino ad estendere la grana delle immagini d’archivio a quelle realizzate dal direttore della fotografia Marco Graziaplena (ma a manovrare la cinepresa c’è come sempre il regista cadreur). Maria Giménez Cavallo, già collaboratrice di Abdellatif Kechiche e Marco Graziaplena per il dittico Mektoub, My Love e per Futura del trio Marcello-Munzi-Rohrwacher, firma la “direzione artistica”.
Tutta l’iconografia di Le vele scarlatte è fedele ad un mondo scomparso e una società che Juliette vuole trascendere, anticipando quell’emancipazione femminile lontana a venire, perché la maga le ha detto che “se sei una femmina soprattutto non tremare davanti al drago”. La dimensione del racconto è avventurosa (come il nome della casa di produzione di Marcello, Sara Fgaier e Gianfranco Rosi), con tanto di pilota temerario sulla macchina volante dal volto antico e romantico dell’onnipresente Louis Garrell.
Nei panni di Juliette c’è un’attrice esordiente, Juliette Jovan, ma a reggere tutta l’architettura narrativa sono Raphael Thiéry e Noemie Lvovsky nei panni di Raphael e Adeline: non solo due interpreti ma due formidabili presenze cinematografiche. E il cammeo di Yolande Moreau nei panni della maga si concentra sul suo sguardo azzurro che sembra nato per il vaticinio. Al centro della storia c’è l’abilità manuale come veicolo (non arma!) di riscatto, e le mani da lavoratore di Thiéry, che “possono fare i cosiddetti miracoli”, come scrive Grin, raccontano da sole tutto un vissuto leggendario.
Le vele scarlatte è una fiaba semplice e antica, raccontata secondo codici scomparsi, fedele a ritmi e relazioni che non ci sono più, e che invece sarebbe importante ritrovare. La regia di Marcello accarezza con gentilezza ed empatia i suoi personaggi, li racconta senza fretta, li circonda di un’atmosfera sospesa ma anche ben radicata nel reale. Il suo Rapahel è, come lui, un artista che non si esprime in parole ma in gesti, che produce note musicali (bellissimo il commento sonoro di Gabriel Yared) e giocattoli creati per nutrire quell’immaginazione che l’epoca e le circostanze negano alle persone. E il potere dell’immaginazione si rivela il vero eroe della storia. 

FILM: CLOSE

In rilievo

VENERDì 20 GENNAIO 2023
SABATO  21 GENNAIO 2023
DOMENICA 22 GENNAIO 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00

Un film di Lukas Dhont
Con Eden Dambrine, Gustav De Waele, Émilie Dequenne, Léa Drucker
Genere Drammatico
Durata 105 min.
Nazione Belgio, Paesi Bassi, Francia
Distribuzione Lucky Red

UN’OPERA CHE AFFRONTA IL TEMA DELL’IDENTITÀ SESSUALE E CI RICORDA CHE I CONDIZIONAMENTI SOCIALI SONO DIFFICILI DA SORMONTARE.
Recensione di Giancarlo Zappoli
Due tredicenni, Leo e Rèmi, vivono la loro preadolescenza condividendo momenti di gioco e momenti di riflessione. Il loro ingresso nella scuola superiore fa sì che i nuovi compagni inizino a manifestare il sospetto che la loro sia non solo un’amicizia ma una relazione sentimentale. Questo finirà per creare una certa distanza che si risolverà in una situazione destinata a lasciare una traccia profonda.
Lukas Dhont dopo Girl torna ad affrontare il tema dell’identità sessuale contestualizzandolo all’interno di un rapporto di profonda amicizia.
Il regista belga si dimostra ancora una volta estremamente abile nel portare sullo schermo le sensibilità di chi vive una fase di mutamento nella propria vita. Questa volta sotto la lente di ingrandimento ci sono due ragazzini che vivono con spensieratezza, ma non con superficialità, una delle fasi più complesse dell’esistenza umana. Uno di loro, Leo, è il più esuberante e solare mentre l’altro, Rèmi, è il più riflessivo e si dedica anche, oltre agli studi di routine, all’apprendimento del suono del flauto. Le loro famiglie si conoscono e vedono nella loro amicizia nient’altro che un bel rapporto di mutuo apprendimento e crescita.
Sarà la malizia più o meno innocente dei compagni, in particolare delle ragazze, a portare in evidenza quella che potrebbe anche essere un’evoluzione della loro amicizia che gli altri però, anche se coetanei e quindi teoricamente meno legati a schemi prefissati, finiscono con l’interpretare secondo i più vieti stereotipi. Ecco allora che Leo inizia ad impegnarsi nella squadra di hockey su ghiaccio quasi a voler sottolineare una virilità che altri sembrano mettere in discussione ed allontanandosi in parte dall’amico.
Quanto accadrà poi non va rivelato mentre invece va sottolineato lo sguardo che, anche in questa sua opera seconda, Dhont rivolge ai suoi protagonisti. La tensione che in Girl accompagnava lo spettatore sin dalle battute iniziali qui si viene a creare progressivamente intaccando la gioia di un legame che il contesto di una vita agreste e ricca di note di colore (si vedano in proposito le immagini del lavoro in campagna) contribuiva a rendere totalmente naturale. Dhont torna così a ricordarci (e continua ad essercene bisogno) che i condizionamenti sociali a tutti i livelli costituiscono purtroppo ancora un ostacolo difficile da sormontare.
Ottiene questo risultato grazie alla presenza sullo schermo di due giovanissimi interpreti che si dimostrano assolutamente in grado di reggere non solo i reciproci ruoli ma anche i primi e primissimi piani che vengono loro dedicati. 

FILM: SAINT OMER

In rilievo

VENERDì 13 GENNAIO 2023
SABATO 14 GENNAIO 2023
DOMENICA 15 GENNAIO 2023
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00


Un film di Alice Diop
Con Kayije Kagame, Guslagie Malanga, Valérie Dréville, Aurelia Petit.
Genere Drammatico
Durata 122 min.
Nazione Francia
Distribuzione Medusa

IL TEMA DELLA MATERNITÀ IN UN’OPERA INCENTRATA SULLA REALTÀ E APERTA ALLA COMPLESSITÀ. VIBRA DI CIÒ CHE RIMANE INVISIBILE.
Recensione di Marzia Gandolfi
Rama insegna letteratura francese all’università e scrive il suo prossimo libro sul mito antico di Medea. A ispirare le sue pagine è Laurence Coly, madre infanticida che ha ‘affidato’ la sua bambina al mare. Processata per il suo crimine, Laurence si rivela impenetrabile e contraddittoria. Immigrata senegalese, educata dai genitori a essere sempre garbata e composta, la sua deposizione è esemplare fino alla mostruosità. E in lei accusa e testimoni vedono soltanto un mostro da rinchiudere per sempre. Non la pensa evidentemente così la difesa, che pronuncia la sua arringa defensionale dotta, non la pensa così Rama, che assiste a un processo in risonanza costante con la sua vita e la sua gravidanza.
Dai suoi incontri con mondi che ignoriamo, Alice Diop deriva i suoi documentari, le sue immagini, i suoi protagonisti. Uomini e donne che rifiutano come lei di essere ridotti all’ambiente in cui sono nati e con cui non sembrano mai finire.
Con Saint Omer, il suo cinema persevera nell’esplorazione di un’assegnazione sociale per meglio fuggirla. Il film si apre allora su una donna nera in cattedra, un’intellettuale solenne come una regina, che non è dove ce l’aspettiamo ma è esattamente dove siamo. È forse per questo che i suoi film ispirano sempre una forza pacifica, una tensione nel montaggio che non dà niente per scontato e scommette sulla ricchezza dei segni che emanano dai volti, dai corpi, dalle situazioni o dai paesaggi. È così che ci fa intendere l’ingiustizia, così che ci allerta sull’esperienza della violenza razzista, sul vissuto dei neri e delle minoranze in seno alla Francia.
Autrice francese di origine senegalese, Alice Diop ha disegnato negli anni un ritratto obliquo della società francese, esplorando con generosità e rigore la singolarità di esistenze plurali. Con Nous, documentario del 2020, aveva percorso le banlieue parigine in lungo e in largo seguendo la RER B, fil rouge del suo racconto e linea di trasporto pubblico che attraversa l’Île-de-France da nord a sud, ovvero territori con uno status sociale terribilmente contrastato. Conosciuta fino ad oggi per i suoi documentari su temi sociali, debutta nella fiction ispirata da una storia vera.
Un crimine che nel 2013 ha scosso la comunità di Saint Omer, dove una donna ha ucciso la sua bimba e poi l’ha abbandonata sulla spiaggia di Pas-de-Calais. Il film, che prende il titolo dal luogo dei fatti, ripercorre il suo processo attraverso gli occhi di una scrittrice incinta del suo primo figlio.
Al cuore di Saint Omer c’è la maternità, al centro del tribunale un’imputata (Guslagie Malanda) che ci confronta con l’ambiguità della maternità. Un personaggio che non suscita forzatamente compassione ma rimbalza ogni semplificazione. Potente, mostruosa e se vogliamo patologicamente folle, Laurence Coly non è mai univoca. Per questa ragione la messa in scena di Alice Diop ci invita ad attendere, a guardare, ad ascoltare seduti in tribunale accanto a Rama (Kayije Kagame). E potete scommetterci che qualcosa accadrà, al limitare.
Così funziona il film che prende il suo slancio da un atto crudo e terribile. I fatti sono accertati, la colpa riconosciuta ma il punto è altrove, la pena inflitta all’imputata dipende largamente dalla sua personalità. Laurence ha un portamento fiero, una proprietà di linguaggio impeccabile, una gravità melanconica che suscita rispetto e trattiene la pietas. Ma quella misericordia, non sembra nemmeno volerla, è soltanto determinata ad affrontare il racconto della sua vita e quello breve della sua bambina. Ma più parla e più cresce il suo e il nostro disagio.
Sotto la sua dignità ribelle, la regista lascia emergere la fragilità, gli eccessi, il narcisismo, le allucinazioni, la gelosia verso un compagno troppo vecchio e troppo assente, la maledizione lanciata dai suoi antenati o forse dai fantasmi della sua coscienza. È dunque nelle forze oscure, nella stregoneria che Laurence invita la corte a cercare l’origine del suo gesto. Quella spiegazione alimenta la linea di difesa dell’avvocato, guida il film, sospeso tra due culture (quella francese e quella senegalese) e attiva la complessa negoziazione dell’autrice con l’accettazione e il rifiuto delle sue molteplici eredità.
Senza la presunzione di voler far luce sull’abisso dove si muove la figura mostruosa della madre criminale, Saint Omer è un’opera coerente con la filmografia di Alice Diop, incentrata sulla realtà e aperta alla complessità. Saint Omer, soprattutto, non è un ritratto, perché un ritratto è piatto e ha una cornice intorno. Attraverso la sua protagonista, l’autrice va oltre il segno troppo evidente, immediatamente associato a conoscenze precostituite e a pregiudizi, anche benevoli. Complice la requisitoria di Aurélia Petit, Saint Omer vibra di ciò che rimane invisibile, persone e luoghi che non guardiamo mai. Alice Diop filma le immagini mancanti di una mamma e della sua bambina che conserva una sorta di esistenza nel limbo della sua mente.

FILM: CHIARA

In rilievo

Un film di Susanna NicchiarelliCon Margherita Mazzucco, Andrea Carpenzano, Carlotta Natoli, Paola Tiziana Cruciani.Genere BiograficoDurata 106 min.Nazione Italia, BelgioDistribuzione 01 Distribution UN’ODE AL SAPER VIVERE FEMMINILE, QUASI UN MUSICAL DALLE TINTE SFUMATE. Recensione di Paola Casella Chiara, ragazza di buona Continua a leggere FILM: CHIARA

FILM: LA STRANEZZA

In rilievo

MARTEDì 27 DICEMBRE 2022
MERCOLEDì 28 DICEMBRE 2022
GIOVEDì 29 DICEMBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Roberto Andò
Con Toni Servillo, Salvo Ficarra, Valentino Picone, Giulia Andò.
Genere Commedia
Durata 103 min.
Nazione Italia
Distribuzione Medusa

UN DONO DI GRATITUDINE ALLA CREAZIONE TEATRALE IN TUTTE LE SUE FORME. CON UN VERO COLPO DI GENIO: IL CASTING DI FICARRA E PICONE. Recensione di Paola Casella
Girgenti, 1920. Nofrio e Bastiano sono becchini, ma anche attori “dilettanti professionisti” intenti a mettere in scena la tragicommedia “La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu”. L’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga riporta Luigi Pirandello alla sua città natale, e la morte della balia del drammaturgo favorisce il suo incontro con i due becchini. Il Maestro è in crisi creativa, e osservando di nascosto le prove della compagnia amatoriale di Nofrio e Bastiano trae ispirazione per uno dei suoi lavori più importanti, “Sei personaggi in cerca d’autore”. Ciò che succede sul palco si mescola con ciò che succede dietro le quinte e Pirandello, silenzioso testimone della prima del duo strampalato, raccoglierà spunti per il debutto della sua nuova creazione, al quale Nofrio e Bastiano verranno invitati.
Roberto Andò, regista e sceneggiatore insieme a Massimo Gaudioso (anche coautore del soggetto) e Ugo Chiti, intesse un arazzo che intreccia linee narrative e ricordi letterari ma anche metacinematografici.
Nofrio e Bastiano rimandano all’Amleto scespiriano, e la scelta di Ficarra e Picone nei ruoli dei due becchini a quella di Franco e Ciccio nell’episodio “La giara” (citato visivamente da una locandina in La stranezza) nel Kaos dei fratelli Taviani. E la sceneggiatura lavora in levare, alludendo senza mai diventare didascalica (magistrale il contenimento nel non citare “Questa sera si recita a soggetto”).
Anche il processo creativo viene raccontato come una tessitura fra vita e teatro, un continuo reciproco nutrimento che si arricchisce della profondità psicologica (o psicoanalitica) pirandelliana derivata all’autore anche da esperienze personali (la pazzia della moglie), dall’affinità elettiva con il coevo Sigmund Freud, e da quel tormento interiore che l’autore siciliano definiva “la stranezza”. Toni Servillo fa sua quell’afflizione nascosta, abbinata alla mitezza garbata che caratterizzava Pirandello, e ritrae il drammaturgo come un’ombra che scivola dietro le quinte. La sua interpretazione è speculare e contraria a quella in Qui rido io, film fratello a La stranezza: tanto là era animale da palcoscenico, sopra le righe anche nel privato, quanto qui è figura defilata e silente, disposta a lasciare i riflettori al prossimo, con educazione antica.
Per contro Valentino Picone e soprattutto Salvo Ficarra sono maschere estremamente efficaci nella loro esagerazione drammaturgica, e il loro casting è un vero colpo di genio: due guitti che non distinguono finzione e realtà, e per i quali il confine fra tragico e comico è costantemente superabile.
La stranezza alterna la cupezza e i fantasmi dell’autore con la luminosità delle scene e la pirotecnia performativa degli attori, traducendo in immagini il lavoro di squadra fra chi crea letteratura – non solo Pirandello, ma anche Giovanni Verga (nel cammeo di Renato Carpentieri) e Leonardo Sciascia, cui il film è dedicato – e chi la porta in scena dandole carne, sangue e temperamento. La ponderata gravitas di Toni Servillo è efficacemente controbilanciata dalla leggerezza mercuriale di Ficarra e Picone, e non stupisce la generosità con cui molti attori di primo piano – da Luigi Lo Cascio a Donatella Finocchiaro, da Galatea Ranzi a Fausto Russo Alesi – si siano prestati a farsi pennellata nell’affresco ampio del regista.
La messa in scena di Andò è filologica nel ricostruire tanto la polvere e il nitore, il colore e il caos allegro della rappresentazione teatrale, quanto l’inquietudine nascosta di quel primo Novecento in cui artisti come Pirandello avrebbero “messo una bomba sotto la costruzione della realtà”, appena prima che venisse ricodificata nella finzione del Fascismo. Le scenografie di Giada Calabria, i costumi di Maria Rita Barbera e la fotografia di Maurizio Calvesi lavorano di fino e di concerto per ricostruire quel piccolo mondo, antico eppure anticipatore della più radicale modernità; il montaggio fluido di Esmeralda Calabria favorisce la transizione fra un dietro e un davanti, un prima e un dopo; e le musiche di Michele Braga ed Emanuele Bossi sostengono magistralmente la narrazione, gonfie di emozione ma pronte a riecheggiare la piega ironica pirandelliana. Anche il dialetto siciliano diventa strumento musicale per raccontare una società e una natura umana vertiginosamente stratificate.
La stranezza ci ricorda quanto il teatro di Pirandello, che ora consideriamo classico, fosse avant-garde, dirompente e trasgressivo, e fa presente la difficoltà di un autore, pur celebrato nel suo tempo, nell’essere accettato e compreso. Inoltre riconosce agli artisti la capacità di “fare quello che va fatto”, donando la propria visione e la propria interpretazione a rischio del rifiuto. La stranezza è un dono di gratitudine alla creazione teatrale in tutte le sue forme, concettuali e performative, e alla sua eredità pronta a sedimentarsi nel nostro inconscio collettivo.
Roberto Andò è eccezionale direttore d’orchestra di questa “storia semplice” che non indulge nel melodramma né scollina nella farsa, e trova la sintesi di tutti gli elementi in scena: miseria e nobiltà, storia e Storia, buio e luce, ispirazione e pantomima. La stranezza restituisce “dignità e rispetto” agli artisti, anche quelli improvvisati, riconoscendo la natura tragicomica di una vita “piena di assurdità” in cui “vogliamo tutti essere ascoltati, risolti, messi in scena”. E il gioco del teatro resta un modo per dribblare la morte, nella consapevolezza che solo i personaggi sopravviveranno ai loro autori e interpreti.

FILM:UNA MAMMA CONTRO G.W. BUSH

In rilievo

VENERDì 16 DICEMBRE 2022
SABATO 17 DICEMBRE 2022
DOMENICA 18 DICEMBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00

Un film di Andreas Dresen
Con Meltem Kaptan, Alexander Scheer, Cornell Adams, Henry Appiah
Genere Commedia drammatica
Durata 119 min.
Nazione Germania, Francia 2022
Distribuzione Wanted

UN DRAMEDY CONTEMPORANEO IN EQUILIBRIO TRA REALTÀ E FINZIONE, PERFORMANCE E DOCUMENTO STORICO. CON UNA STRAORDINARIA MELTEM KAPTAN
Recensione di Roberto Manassero
Rabiye Kurnaz è una signora tedesca di origini turche dalla vita tanto normale quanto frenetica: vive in una casetta a schiera di Brema, si occupa dei figli, è la vera anima della sua famiglia. Contro ogni previsione, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 suo figlio Murat viene accusato di terrorismo ed è uno tra i primi a essere spedito nel campo di prigionia di Guantanamo. Per Rabiye è l’inizio di una battaglia che dal suo mondo la porterà a sfidare i potenti del mondo. La sua audacia e la sua parlantina convinceranno un po’ alla volta tutti quelli attorno a lei, a cominciare dall’avvocato per i diritti umani Bernhard Docke, che la aiuterà a portare il suo caso fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
La forza del film sta nella sua interprete, Meltem Kaptan, comica, conduttrice, autrice, vera e propria mattatrice: la sua figura apparentemente anonima genera un corto circuito tra realtà e finzione, performance e documento storico.
Diretto da Andreas Dresen, regista da sempre in equilibrio tra cinema d’autore e produzione commerciale, abile proprio nel gestire con la finzione eventi presi dalla vita vera (non si dimentica il suo Stopped on Track, resoconto in forma di diario filmato del decorso di un cancro al cervello), Una mamma contro G.W. Bush è un tipico esempio di cinema giudiziario, ricostruzione di un caso di cronaca come se ne vedono continuamente nel cinema americano.
Del genere possiede le premesse, la volontà cioè di mettere in scena fatti giudiziari documentati, e al tempo stesso ne rivede la forma, grazie alla prova della stessa Kaptan (premiata a Berlino con l’Orso per la Miglior Interpretazione) e alla forza insospettata – e furbamente innescata – di una donna la cui tenacia nasce dall’amore e travolge il mondo paludato in cui si muove (la cosa più divertente del film sono i duetti con l’austero Docke, che si scioglie col passare della vicenda).
La prova dell’attrice, a metà tra performance da stand-up, imitazione e appropriazione, finisce per mangiarsi tutto il film, sospeso per questo tra un andamento piatta da cronaca didascalica, commedia dei caratteri e dei costumi e riflessione sul rapporto fra individuo (donna, in particolare) e potere nella società mediatica contemporanea.
Rabiye Kurnaz vince – a prescindere dal risultato della sua battaglia – perché riesce a diventare personaggio in un mondo che nemmeno che la considererebbe come interlocutrice; impone la sua normalità e la sua fisicità prorompente come elementi disturbanti, distruttivi, affrontando i potenti con la sua ingenuità e ingegnosità. Non solo: la stessa Kaptan, forte della fama in patria, trasforma il dramma giudiziario in una commedia, sfidando la storia sul piano dello sberleffo e giocando con le attese dello spettatore che ne conosce la comicità. 

FILM:IL PIACERE È TUTTO MIO

In rilievo

VENERDì 9 DICEMBRE 2022
SABATO 10 DICEMBRE 2022
DOMENICA 11 DICEMBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00
tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Sophie Hyde
Con Emma Thompson, Daryl McCormack, Les Mabaleka, Lennie Beare
Genere Commedia
Durata 97 min.
Nazione Gran Bretagna 2022
Distribuzione Bim Distribuzione

EMMA THOMPSON BRILLA IN UNA COMMEDIA SULLA SEX POSITIVITY DAI RITMI SERRATI E DALL’ANIMO TENERO E DIVERTENTE.
Recensione di Tommaso Tocci
Tutto in una camera d’albergo: Nancy Stokes, insegnante in pensione, ha finalmente deciso. Dopo la morte del marito, che a letto non l’ha mai soddisfatta, è tempo di svelare i tanti misteri che il sesso ancora le riserva. Per questo ha fissato appuntamento per una sessione con Leo Grande, accompagnatore, intrattenitore e terapeuta del sesso che promette di darle ciò che non ha mai avuto. Quando la porta si apre, però, Nancy si rende conto che mettersi a nudo di fronte a uno sconosciuto non sarà poi così facile.
Commedia brillante a sfondo sessuale che non disdegna un livello più profondo di analisi psicologica attorno ai temi di identità e sviluppo di sé, Il piacere è tutto mio diverte e coinvolge grazie ai dialoghi vivaci e serrati, magistralmente condotti da una Emma Thompson in grande spolvero che si ritaglia un ruolo memorabile.
Le fa compagnia il giovane attore irlandese Daryl McCormack, in una di quelle prove che rischiano di far da battesimo a una star del futuro. Insieme duettano a colpi di gag, fraintendimenti, approcci falliti e – pian piano – una conoscenza più intima che tradisce i propositi iniziali di un rapporto professionale e di due identità fittizie.
Nella sceneggiatura della comica e autrice televisiva Katy Brand, l’ambientazione quasi totale della camera d’albergo (in una serie di incontri ripetuti) diventa il terreno levigato e artificiale di una battaglia per la definizione e il controllo delle proprie fantasie. Leo, professionista inappuntabile, le prova tutte per metterla proprio agio e farle scoprire le meraviglie dei sensi che la donna cerca da una vita. Nancy, dal canto suo, non riesce a conciliare mente e corpo né a concepire come il ragazzo possa vivere il suo mestiere così serenamente.
Spesso si parla di prove d’attore “coraggiose”, e in particolare quella di Thompson non può non considerarsi tale, per quanto il termine sia trito. Nel mettersi letteralmente a nudo davanti a uno specchio, l’attrice si fa carico del peso di conversazioni scomode non solo sulla sessualità, ma sul corpo delle donne, in particolare di una certa età, e di come e quanto esso possa mostrarsi.
La regista Sophie Hyde asseconda il tutto con una visione fresca e contemporanea della “sex positivity”, e una messa in scena pulita ed essenziale che lascia ampio spazio all’esercizio teatrale tra i due protagonisti. Tutto, nel film, è raffinato all’ennesima potenza – dalla perfezione letterale di McCormack, che riesce ad accompagnare una celebrazione leggera e ariosa del suo corpo fatto oggetto, a quella paradossale di Thompson, che fa sembrare ogni reazione nervosa e ogni smorfia parte di una coreografia calibrata al millimetro.
Poco male, perché Il piacere è tutto mio è esso stesso una dissezione del vero e del finto, e soprattutto riesce nella missione di parlare di temi scomodi con una dolcezza e tenerezza di fondo che non può che catturare l’animo dello spettatore

FILM: IL MIO VICINO ADOLF

In rilievo

VENERDì 2 DICEMBRE 2022
SABATO 3 DICEMBRE 2022
DOMENICA 4 DICEMBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00

Un film di Leon Prudovsky
Con David Hayman, Udo Kier, Olivia Silhavy, Kineret Peled.
Genere Commedia
Durata 96 min.
Nazione Israele, Polonia, Colombia 2022. DistribuzioneI Wonder Pictures

Una storia di confine, quella de Il mio vicino Adolf. Il confine fra due memorie, il confine fra un passato doloroso e un presente che non può fare a meno di farne i conti, con la disperata utopia di superarlo. Ma anche il confine fra commedia e il dramma più cupo di tutto il Novecento. Un oggetto misterioso come gli occhi di Udo Kier, un grande “monumento” del cinema altrettanto di confine: fra i generi e le sue due patrie, la vecchia Europa e Hollywood.
Uno steccato di legno segnato dal tempo. Un confine che divide due villette di campagna decadenti nella campagna colombiana del 1960, ma anche due universi contrapposti: quello delle vittime e quello dei carnefici. Da una parte un burbero e solitario anziano ebreo polacco, sopravvissuto all’Olocausto al contrario della sua famiglia, dall’altra un tedesco appena trasferito, che secondo il primo non è altro che Hitler in persona. Lo riconosce dagli occhi, dallo sguardo di ghiaccio che aveva incrociato decenni prima a Berlino. Siamo nei giorni in cui in Argentina il Mossad rapì Eichmann per processarlo in Israele.
Un’indagine portata avanti con ogni energia per dimostrare la sua stramba teoria con delle prove oggettive diventa da quel momento l’unico scopo quotidiano della sua vita. Ovviamente nessuno gli crede, neanche al consolato israeliano. Cerca di interagire con il nuovo arrivato per ottenere la conferma dei suoi sospetti, ma come avvicinarsi al male assoluto? Gli iniziali scambi pieni di tensione si sciolgono nella condivisione dell’amore per gli scacchi. I due sembrano avventurati sull’orlo di un’amicizia, che per il protagonista rischia di diventare un baratro morale, ampio quanto identificare dell’umanità nel tuo peggior nemico, che sia Hitler o il popolo tedesco.
Quello messo in scena dall’israeliano Leon Prudovsky è un universo sospeso nel tentativo del superamento impossibile della ferita insanabile per eccellenza del Novecento: la Shoah. Un universo in cui il passato remoto, il ricordo di chi c’era e ora non c’è più, è l’unico elemento vitale che permette al protagonista di affrontare il presente, magari grazie a consigli di famiglia come sbriciolare dei gusci d’uovo per far fiorire con il massimo splendore delle rare rose nere. Gli strumenti utilizzati ne Il mio vicino Adolf sono quelli nobili della tradizione yiddish: dolore e ridicolo, assurdo e grottesco, con barlumi di inusitata dolcezza, come una chiacchierata notturna fra i due vicini amici/nemici, in cui la condivisione passa per il sapore proustiano di un cetriolo sottaceto, capace di rievocare una vicinanza culturale e quotidiana.
Un equilibrio delicato mantenuto anche grazie alla maestria di due interpreti in stato di grazia come Udo Kier e lo scozzese David Hayman, che torna a interpretare un ebreo passato per i campi di sterminio dopo Il bambino con il pigiama a righe. Un confine mantenuto inviolato, in cui è difficile dare risposte se non consigiliare di affacciarsi oltre quello steccato, guardarsi negli occhi in maniera sincera, elaborando e non superando o spazzando via il passato senza tramandarne le responsabilità.
Di Mauro Donzelli 

FILM:UN ANNO ,UNA NOTTE

In rilievo

VENERDì 25 NOVEMBRE 2022
SABATO 26 NOVEMBRE 2022
DOMENICA 27 NOVEMBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Isaki Lacuesta
Con Nahuel Pérez Biscayart, Noémie Merlant, Quim Gutiérrez, Alba Guilera. Genere Drammatico
Durata 120 min.
Nazione Spagna 2022
Distribuzione Academy Two

UN NUOVO INIZIO CHE NON FINISCE MAI, UNA FINE CHE RICOMINCIA OGNI GIORNO. UN FILM DENSO SULL’IMPOTENZA DI RAPPRESENTARE LO SMARRIMENTO.
Recensione di Roberto Manassero
Ramón e Céline, lui spagnolo, lei francese, sono sopravvissuti all’attacco terroristico al teatro Bataclan di Parigi, la sera del 13 novembre 2015. Da allora la loro vita non è più la stessa, entrambi vivono il trauma a proprio modo e occupano mondi differenti. Ramón, ferito e scioccato, cambia vita, lascia il lavoro, va in terapia, si dedica all’insegnamento, sa di non poter dimenticare; Céline, invece, va avanti, continua nel suo lavoro di assistente sociale, sostiene il suo compagno ma alla lunga crolla anche lei. Come possono, Ramón e Céline, tornare a parlarsi e capirsi, a vivere insieme nonostante tutto?
Tratto dal romanzo “Paz, amor y death metal” di Ramón González, che con la fidanzata è realmente sopravvissuto al massacro del Bataclan, il film è il resoconto di ciò che avviene dopo un trauma: l’inevitabile negoziazione tra il ricordo e la realtà, nello spazio e nel tempo di una città ferita.
Ramón e Céline, i protagonisti di Un anno, una notte, che portano gli stessi nomi di chi l’orrore del Bataclan l’ha visto negli occhi e ha avuto la fortuna di poterlo raccontare, sono due sopravvissuti: la loro vita è bloccata a quella sera, in quella sala da concerto trasformata in mattatoio, dove dieci minuti sono valsi una vita intera, ogni ambiente è diventato una trappola, ogni notte un anno, ogni anno una notte.
Chiusi nel loro appartamento di Parigi vivono braccati dalla loro stessa immagine e da ciò che li circonda. In strada sono sorpresi dai riflessi nelle vetrine, dalle strade che si aprono alle loro spalle, dalla pioggia che cade copiosa. Avvolti nella carta stagnola che la polizia ha dato loro per scaldarsi nella notte di novembre, all’inizio del film attraversano la città come fantasmi; o meglio come alieni – alieni a sé stessi e a tutti gli altri vestiti come loro, sopravvissuti come loro.
Un anno, una notte mostra come gli attacchi terroristici di Parigi abbiano prima di tutto modificato la percezione della città, che da luogo di condivisione è diventato un luogo minaccioso. Per strada Céline e Ramon si guardano sempre attorno, mentre nella loro casa la macchina da presa li scruta da vicino, passando in rassegna i loro corpi quasi con stupore. Come se fossero l’involucro di una nuova vita. La stessa città è vista da una prospettiva diversa, filmata attraverso scorci, mai vista interamente, anch’essa aliena alla propria immagine tradizionale. A dover essere ridefinita è del resto la Francia stessa, come dice Céline durante una lite con Ramón, che invece è straniero e si sente a parte come i ragazzi della casa d’accoglienza in cui la stessa Céline presta servizio, francese e figlia di immigrati, senza famiglia e senza prospettive.
E laddove lo spazio è definitivamente mutato, anche il tempo in Un anno, una notte non ha una direzione. Il montaggio è sconnesso, arbitrario, passa senza distinzione dalla serenità del passato alla paura del Bataclan e del presente. Il procedimento è simile a quello scelto da Mathieu Amalric in Stringimi forte (altro film dedicato all’elaborazione di un trauma), ma meno radicale, più impressionista e forse più irrisolto.
La vicinanza ai corpi scelta da Isaki Lacuesta come soluzione di messinscena rende bene lo stato di soffocamento interiore di Ramón e Céline, la paradossale cecità di chi ha visto tutto e non sa più vedere nulla (lui dice di avere sempre di fronte a sé il volto di uno degli attentatori, lei di ciò che vide mentre usciva dal locale): anche per questo, però, nelle oltre due ore di durata, il film finisce per saturare le proprie immagini, faticando a gestire una materia narrativa carica di dolore, di ansia, d’insofferenza e immergendo nell’ambiguità anche la svolta narrativa che potrebbe rimettere tutto in discussione.
Mostrando il caos interiore dei due protagonisti (magnificamente interpretati da Nahuel Pérez Biscayart e Noémie Merlant), il film quasi riconosce la propria impotenza; l’impossibilità, cioè, di rappresentare lo smarrimento se non attraverso l’accumulo di dettagli, di particolari insignificanti che diventano decisivi (la polvere che si solleva dal pavimento del Bataclan, effetto del vapore dei cadaveri ammassati), di musiche che si sovrappongono (Monteverdi, l’heavy metal, le composizioni sperimentali di Ramón) e trasmettono uno stato di tensione irrisolta, un nuovo inizio che non finisce mai, una fine che ricomincia ogni giorno.

FILM:TRIANGLE OF SADNESS

In rilievo

VENERDì 18 NOVEMBRE 2022
SABATO 19 NOVEMBRE 2022
DOMENICA 20 NOVEMBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:45
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Ruben Östlund
Con Harris Dickinson, Charlbi Dean Kriek, Woody Harrelson, Vicki Berlin. continua» Genere Satirico
Durata 149 min.
Nazione Svezia 2022
Distribuzione Teodora Film

Triangle of Sadness”, una commedia nera profonda e divertente
Nelle sale il film vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, una satira che riflette con forza sui tempi in cui viviamo

di Andrea Chimento
La Palma d’oro arriva nelle sale italiane: “Triangle of Sadness”, il film vincitore del premio più prestigioso del Festival di Cannes di quest’anno, è il grande protagonista del weekend al cinema.
Alla regia c’è lo svedese Ruben Östlund, che aveva già ottenuto (un po’ generosamente) lo stesso premio nel 2017 con “The Square” e che si conferma con questa pellicola un autore che non lascia mai indifferenti.
Protagonista del film è una coppia di modelli invitati a partecipare a una crociera di lusso insieme a un bizzarro gruppo di personaggi. Tutto all’inizio sembra piacevole, ma un evento catastrofico trasformerà il viaggio in un’avventura da incubo, dove ogni gerarchia finirà per essere capovolta.
Dopo aver messo alla berlina il mondo dell’arte nel controverso e discutibile lungometraggio precedente, Östlund fa la stessa cosa con il mondo della moda e, soprattutto, degli influencer, inseriti non a caso in un contesto in cui sono circondati da figure che si sono arricchite nelle maniere più disparate e non sempre in modo del tutto pulito (emblematico il caso di una coppia di anziani diventata ricca grazie alla realizzazione di granate a mano).Diviso in tre capitoli, il film si apre con una lunga conversazione dei due protagonisti attorno a un conto da pagare, prosegue con la notevolissima parte a bordo del super yacht e si conclude su un’isola dove i ruoli si ribalteranno improvvisamente.
Una satira sui nostri tempi
Si può definire “Triangle of Sadness” una satira sui tempi in cui viviamo, una commedia nera dal taglio sociologico e politico che racconta il cinismo contemporaneo riuscendo tanto a far riflettere quanto a divertire. Nonostante si possano citare dei possibili modelli di riferimento (un esempio può essere Luis Buñuel per la capacità di mettere in risalto il cinismo di certe classi sociali), Östlund ha uno stile ormai personalissimo, riconoscibile e discutibile allo stesso tempo. In questo caso però, nonostante una durata non indifferente (circa 2h30m), la narrazione è così tagliente e intelligente da non far pesare il lungo minutaggio e il risultato è forse il miglior film realizzato in carriera dal regista che aveva già stupito con “Forza maggiore” nel 2014.Buona prova di un cast corale in cui è presente anche Woody Harrelson. Tra i protagonisti della pellicola c’è inoltre Charlbi Dean, attrice e modella tragicamente scomparsa lo scorso agosto a soli 32 anni.

FILM: ASTOLFO

In rilievo

CINEMA TEATRO ARCI FROSINONE
Via P.L. da Palestrina

VENERDì 11 NOVEMBRE 2022
SABATO 12 NOVEMBRE 2022
DOMENICA 13 NOVEMBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Regista: Gianni Di Gregorio
Genere: Commedia, Sentimentale
Anno: 2022
Paese: Italia
Durata: 97 min
Data di uscita: 20 ottobre 2022
Distribuzione: Lucky Red

UNA FAVOLA SCANZONATA, MERAVIGLIOSAMENTE INTERPRETATA, TRA RIMANDI EPICI E DIGRESSIONI LIRICHE.
Recensione di Marzia Gandolfi
Astolfo è un professore in pensione che vive a Roma in un vecchio appartamento da cui viene gentilmente sfrattato. Gli affitti sono lievitati e il professore decide di tornare in provincia, sulle colline di Artena dove è ubicato il palazzo nobiliare di famiglia. I suoi grandi salotti polverosi sono abitati da un povero diavolo caduto in disgrazia come lui. Insieme decidono di affrontare il presente, il sindaco, che ha costruito sulle terre appartenute in un tempo remoto alla sua famiglia, e un prete invadente, che ha murato il suo salone e occupato le sue stanze per la ricreazione. Ma l’amore per Stefania, una bella signora introdotta dal cugino farfallone, scuoterà l’ordinarietà del quotidiano e darà un senso nuovo alla sua esistenza.
Seconda volta fuori porta per Gianni Di Gregorio e quinta volta sullo schermo per il suo personaggio romano, chiamato archetipicamente “il professore”.
Un vecchio ragazzo, un po’ smarrito e vagabondo, che attraversa la vita con una sorta di candore e di inerzia gioiosa. Un’attitudine che è una dichiarazione di estetica, una maniera di abitare poeticamente il mondo che apre con Astolfo una possibilità. Spalanca un orizzonte nuovo che risale le colline laziali fino ad Artena, un piccolo comune di anime placide. Nel cinema di Di Gregorio le virate in auto sono l’occasione di piccole follie e prendono la forma di digressioni liriche o di escursioni sentimentali.
Erede di un paladino franco che fece l’impresa, quella grande e cavalleresca che lustra il blasone, annette terreni e ritrova il senno di Orlando, Astolfo è l’inverso del suo antenato, una creatura alla ricerca di un riparo. Non cavalca ippogrifi, il professore, ma una Panda che lo conduce lontano dall’agitazione urbana verso un luogo bucolico dove scrive un’altra delle sue avventure, una favola scanzonata, meravigliosamente interpretata, che ha ancora una volta il merito di rendere visibile la vecchiaia.
Se tutte le strade portano a Roma, qualcuna permette di uscirne. Per necessità. Un contratto d’affitto scaduto e una pensione minima. Ma anche lontano dalla capitale, le relazioni umane, l’amicizia e l’aiuto reciproco restano il cuore battente del suo cinema dagli accenti romani affilati. Le espressioni dialettali che punteggiano le sue conversazioni, la sua ironia, la sua grande cultura e la sua ‘ignoranza’ tranquilla disegnano la sua appartenenza a una città e a un territorio che a questo giro di auto si allarga a comprendere la bella provincia laziale.
“Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia: che quel paese appresso era sì grande, il quale a un picciol tondo rassimiglia a noi che lo miriam da queste bande…”. Lo spazio che si apre agli occhi del nostro Astolfo non è la Luna di Ariosto ma come “lassù” ha fiumi, laghi e campagne, città, valli e castelli dove una dama lo attende da sempre. È Stefania (Sandrelli), musa discreta e determinata, che lo innamora.
‘Partire con lei’ oggi è facile, tanto quanto era complicato spiccare il volo ieri in quell’utopia che era Lontano Lontano, finta partenza aggrappata alle costolette impanate e alla porchetta, al guanciale e al cocomero in piedi. Armato di un passaporto per nessuna parte e mille obiezioni mormorate nella barba, Roma non gli era mai sembrata così lontana. Il professore adesso è altrove con Stefania e un nuovo spirito, lucido e intraprendente.
Gianni Di Gregorio non nasconde niente sotto le borse degli occhi, le rughe della vita, il desiderio che lo assilla e che finalmente soddisfa fuori dalle mura dell’Urbe. Se il regista infonde al suo avatar la stessa nonchalance bonaria, costruendo il suo film su una pacata verve dialogica, Stefania Sandrelli impone ancora la sua bellezza di vergine siciliana, sedotta ma non abbandonata perché Astolfo la porta via con sé. Al ritmo calmo e tranquillo della sua Panda bianca. Un movimento in avanti che lo mette al riparo da qualsiasi sospetto di immobilismo, anche quando si adagia sugli allori di un’italianità senza tempo.

FILM: Miracle – Storia di destini incrociati

In rilievo

VENERDì 4 NOVEMBRE 2022
SABATO 5 NOVEMBRE 2022
DOMENICA 6 NOVEMBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Bogdan George Apetri
Con Ioana Bugarin, Emanuel Parvu, Cezar Antal, Ovidiu Crisan
Genere Drammatico
Durata 118 min.
Nazione Romania, Repubblica ceca, Lettonia
Distribuzione Trent Film
UN’INTERESSANTE METAFORA SULLA CONDIZIONE DELLA ROMANIA E SULL’ETERNO SCONTRO FRA UMANO E DIVINO Recensione di Roberto Manassero
La giovane suora Cristina esce di soppiatto dal monastero dove vive e si reca in città per sbrigare una faccenda urgente. Dopo aver girato tra l’ambulatorio di un ospedale, un palazzo della periferia e una stazione di polizia, decide di fare ritorno al monastero e sale a bordo di un taxi. Nel corso del viaggio, però, è assalita dal tassista e brutalmente violentata. Indagando sul caso, l’ispettore Marius Preda ricostruisce la giornata di Cristina e prova a farsi raccontare da lei, ridotta in fin di vita, come sono andate le cose. Marius rintraccia il presunto colpevole, lo porta sul luogo del delitto e in preda a una rabbia cieca gli intima di confessare. La situazione gli sfugge di mano, ma un miracolo inatteso lo attende…
Diviso in due blocchi, con due protagonisti antitetici, il film oppone visioni opposte della realtà: una fideistica, l’altra materialista; una spirituale, l’altra tenacemente razionale.
Bogdan George Apetri, regista al terzo lungometraggio e nel 2010 autore di un esordio, Periferic, nato da un soggetto di Cristian Mungiu, cerca una sintesi tra le due trame complementari del suo film (una più misteriosa e l’altra speculativa) e fra i mondi contrapposti che mette in scena. Giovane, bella, misteriosa, Cristina rappresenta l’innocenza disarmata; aggressivo e risoluto, Marius incarna invece l’esperienza di chi accetta e combatte il male del mondo, ma non può nulla per impedirlo. Marius è al servizio di Cristina, lotta per dare un volto al suo assalitore, ma anche Cristina interviene in favore di Marius, arrivando laddove la ragione non può.
Tra questi due mondi e dimensioni – che in Oltre le colline lo stesso Mungiu rappresentava in modo più complesso, costruendo una realtà dove il male era accennato, e per questo spaventoso – c’è un intero Paese, la Romania, diviso fra tradizione e modernità, religione e giustizia; fra l’arretratezza di una campagna dove greggi di pecore bloccano il traffico e i cavalli attraversano paesaggi da western e la modernità di città di cemento che inghiottono esistenze.
Miracle – Storia di destini incrociati non ha la precisione di Sesso sfortunato o follie porno, in cui Radu Jude faceva di una passeggiata a Bucarest un’antologia di parole, immagini e attitudini della società contemporanea. Ciò nonostante, nei paesaggi urbani attraversati dall’attonita Cristina, si scorge ancora pienamente, a diversi anni dall’affermazione internazionale del nuovo cinema rumeno, uno sguardo radicato nella cultura di una nazione, nei suoi spazi e nel suo tempo.
La radio, ad esempio, ascoltata nei viaggi in macchina che sia Cristina sia Marius compiono nel corso del film, diventa una sorta di trait-d’union: i programmi trasmettono continuamente classici della canzone rumena e tra passato e presente, memoria e realtà, si coglie la condizione incerta di una nazione, la solitudine di chi ha ucciso (letteralmente) il padre e non ha saputo sostituirlo. «Forse verrà qualcuno a occuparsi di questo paese», dice un personaggio, ma subito dopo un altro gli chiede se per caso crede ancora ai miracoli…
Nel film di Apetri (presentato lo scorso anno nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia) un miracolo risolve il racconto, alla maniera dei misteri popolari, ma non offre risposte certe. Ciò che avviene potrebbe essere un intervento dall’alto o un semplice desiderio avverato. Visivamente, il punto di svolta del film è mostrato come un riflesso, un attimo che cancella la tensione formale tra l’ampiezza dei piani sequenza (impressionante quello che riprende lo stupro a distanza) e il ritmo dei campi e controcampi nei lunghi dialoghi.
Tale sintesi è un’evidente forzatura, un gesto clamoroso che spezza la narrazione, offrendo ai personaggi una via di fuga e allo spettatore la consapevolezza di assistere a una metafora sulla condizione di un popolo e sull’eterno scontro fra umano e divino.

FILM: NINJABABY

In rilievo

VENERDì 28 OTTOBRE 2022
SABATO 29 OTTOBRE 2022
DOMENICA 30 OTTOBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00

Un film di Yngvild Sve Flikke
Con Kristine Kujath Thorp, Arthur Berning, Nader Khademi, Tora Christine Dietrichson.
Genere Commedia
Durata 103 min.
Nazione Norvegia
Distribuzione Tucker Film

UNA COMMEDIA CORAGGIOSA, ALLA MODA MA INTELLIGENTE, PIENA DI VITALITÀ ED ENERGIA COME LA SUA PROTAGONISTA.
Recensione di Roberto Manassero

Rakel ha 22 anni, vive a Olso con l’amica Ingrid, ha talento per il disegno ma ha mollato la scuola di design. La sera ama divertirsi, tra alcol, droga e sesso occasionale. Sentendosi fisicamente strana, fa un test di gravidanza e scopre con orrore di essere incinta. Convinta che il padre sia l’istruttore di aikido Mos, Rakel si fa accompagnare da lui alla clinica per abortire, ma qui ha un’altra sorpresa: è incinta di sei mesi e mezzo, e nessuno può autorizzare l’aborto. Cosa fare dunque, soprattutto dopo aver capito che il padre è un irresponsabile perdigiorno noto principalmente per le incontestabili doti amatorie? Per Rakel comincia un periodo di grande incertezza, in cui dialoga con il suo bambino, medita se affidarlo alla sorellastra Mie e scopre di provare qualcosa per il timido Mos…
Commedia sentimentale con inserti d’animazione e racconto generazionale, il film di Yngvild Sve Flikke procede con un ritmo incalzate e nervoso, simile alla sua protagonista piena di vitalità ed energia, ragazza a cui piace fare la dura, come le dice l’uomo che potrebbe amarla, ma abbastanza umana da ammettere di avere paura.
Il cuore del film è proprio la personalità di Rakel, a cui l’attrice Kristine Kujath Thorp offre la sua bellezza originale, un’aria trasandata e una personalità fuori controllo, a volte sopra le righe, altre volte succube degli eventi, altre ancora troppo aggressiva.
Rakel eccede in ogni cosa che fa, nel sesso, nel bere, nella leggerezza con cui affronta le cose e cambia compagni di letto. I disegni che realizza e che animano lo schermo (a cominciare dal tratto a carboncino della creatura che porta in grembo, immaginata come un feto con benda sugli occhi, un po’ ladro e un po’ amico fedele) sbordano le inquadrature, le aprono a una dimensione immaginata e immaginaria che funziona da controcanto alla commedia. La tragedia, invece, resta fuoricampo, nel retroterra familiare non specificato della protagonista, nelle paure che la attanagliano e sembrano venire da lontano; in una disperazione silenziosa che va a braccetto con una voglia di vivere disordinata.
Ninjababy è un film figlio dei nostri tempi: racconta la storia più vecchia del mondo – quella di una ragazza vittima di sé stessa e delle regole di una società inevitabilmente maschilista – senza pietismi, commentando gli eventi “a lato”, con ironia e sarcasmo, frullando romanticismo e grottesco, volgarità e turpiloquio.
Le cose più belle sono i dialoghi con l’esserino animato e il rapporto con l’improbabile Mos, personaggio buffo e di grande verità. Le cose meno belle, forse, l’insistenza sui toni dolceamari, tipici della commedia scandinava, che finiscono per rendere fin troppo equilibrato il racconto e per toglierli un po’ della sua lucidità.
Il pensiero va a La persona peggiore del mondo del connazionale Joaquim Trier – film più quotato e raffinato di questo – in cui una trentenne ben consapevole delle proprie fragilità semina dolore per sé e per gli altri, incapace di trovare un proprio posto nel mondo.
Rakel è meno bella e intelligente della Julie di Trier, ma un suo posto ce l’ha: ed è per l’appunto il mondo della fantasia in cui anima i suoi disegni e ci fa conversazione, negoziando l’idea della gravidanza. Rakel non è né una madre, né è una donna tutta sola, né una disagiata: è una ragazza la cui principale dote creativa non ha ancora trovato uno sfogo, uno scopo (la sua camera è piena di disegni che nessuno deve vedere).
Ed è bello, dunque, che la regista e le sceneggiatrici Johan Fasting e Inga Sætre (che hanno lavorato a partire da un graphic novel di quest’ultima, “Fallteknikk”), raccontino il percorso di crescita della protagonista senza cedere alle logiche narrative del coming of age e a quelle dell’amore come sacrificio (ruolo che spetta invece all’improbabile “Minchia santa”, cui spetta un’evoluzione più tradizionale). L’esito della vicenda di Rakel, se non è sorprendente, è spigoloso, poco riconciliato, e questo basta a fare di Ninjababy un film coraggioso, alla moda ma intelligente. 

FILM:GLI ORSI NON ESISTONO

In rilievo

VENERDì 21 OTTOBRE 2022
SABATO 22 OTTOBRE 2022
DOMENICA 23 OTTOBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
UNA STORIA CHE RECLAMA VERITÀ IMMORTALATA DA UN REGISTA CHE CONTINUA A ESPORSI IN PRIMA PERSONA SENZA TIMORE.
Recensione di Giancarlo Zappoli
Una strada e una coppia. Lui ha procurato per lei un passaporto falso per consentirle di espatriare ma quando la donna apprende che non partiranno insieme rifiuta di lasciarlo. Uno “Stop” ci informa del fatto che si tratta di una scena di una docufiction che Jafar Panahi sta cercando di dirigere a distanza da un villaggio in cui il segnale è estremamente precario. Ma anche la vita in quel luogo è precaria.
L’ultimo film (per prevedibili almeno sei anni) del pluripremiato regista.
Come è noto Jafar Panahi già nel 2010 aveva subito una condanna che prevedeva per venti anni l’impossibilità di girare film, espatriare ed avere contatti con i media. Di recente però, essendosi recatosi alla Procura di Teheran per avere informazioni su un altro regista detenuto, è stato arrestato e condannato a sei anni di reclusione.
Questo film si propone come una sorta di (ovviamente speriamo temporaneo) punto fermo nella sua filmografia. Ancora una volta, da artista che non si piega ai diktat del potere, riesce ad eludere tutti i vincoli e a consegnarci una sua riflessione sul cinema e sulla società iraniana. Per quanto riguarda il cinema ci mostra come possa ancora essere un mezzo di denuncia a cui solo la mancanza di campo può porre degli ostacoli.
Non sono più i tempi in cui il regime consegnava e controllava la quantità di pellicola utilizzata per girare un film ‘autorizzato’ preceduto dall’immancabile “In nome di Dio”. Oggi si procede diversamente e, se necessario, per interposte persone. Ecco allora una storia d’amore così forte da chiedere di essere raccontata ma che, al contempo, finisce con il reclamare una ‘verità’ che anche il cinema più indipendente può faticare a cogliere nella sua essenza.
Ma c’è un’altra vicenda che avviene nel villaggio e che coinvolge Panahi al punto da costringerlo ad andarsene. Muovendosi su questo doppio registro riesce non solo a raccontarci due situazioni definite nel tempo e nello spazio ma anche a ricordarci come il potere espanda i suoi tentacoli anche nei luoghi più remoti approfittando dei pregiudizi e dell’ignoranza.
Resta comunque il bisogno irrefrenabile dell’artista di esprimersi con il mezzo a lui più congeniale, giocando anche sulla sospensione dell’incredulità. Lo spettatore deve pensare ad un Panahi in solitudine nel villaggio mentre invece viene ripreso con camera in movimento da qualcuno che è lì con lui. Questa però non è finzione nel senso deteriore del termine. È fare cinema di testimonianza esponendosi in prima persona ponendosi dietro e davanti alla macchina da presa non avendo il timore di firmare così la propria condanna pur di raccontare senza costrizioni servili.

FILM: LOVE LIFE

In rilievo

VENERDì 14 OTTOBRE 2022
SABATO 15 OTTOBRE 2022
DOMENICA 16 OTTOBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:30
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Kôji Fukada
Con Fumino Kimura, Kento Nagayama, Atom Sunada, Marika Yamakawa
Genere Drammatico
Durata 123 min.
Nazione Giappone
Distribuzione – Teodora Film
UNA STORIA DI EMANCIPAZIONE E RICERCA DI SÉ CHE LAVORA SULLE DISTANZE, NULLE O ESTREME, REALI E METAFORICHE.
Recensione di Marianna Cappi
Aeko vive felicemente con il giovane sposo Jiro e il piccolo Keita, nato da una relazione precedente. Tutto ciò che desidera è l’approvazione di suo suocero, che stenta ad arrivare. Un incidente domestico riscrive però improvvisamente la vita di Taeko e di chi le sta vicino e determina il ritorno del padre biologico di Keita, Park, di cui la donna non aveva notizie da anni.
“Qualunque sia la distanza tra di noi, niente può impedirmi di amarti” recita Love Life, la canzone di Akiko Yano che presta il titolo al film, e di distanze reali e metaforiche parla Koji Fukada.
I genitori di Jiro hanno scelto di vivere di fronte alla coppia di sposi, per stare vicino al bambino, ma è una vicinanza solo geografica, perché non c’è reale comunicazione dei sentimenti, e anzi la tendenza comune ad affrontare la tragedia con pudico silenzio è in realtà una modalità di negazione collettiva. L’unico che sembra sfuggire alla trappola dell’insensibilità è l’outsider del gruppo, l’ex marito di Taeko. Lui non è del tutto giapponese ma per metà straniero (coreano), non veste di nero ma di giallo, non parla perché è sordo, ma usa il corpo per attaccare la protagonista, esprimendo la sua rabbia e sbloccando in lei ciò che era represso.
Si disegna così il triangolo al centro del film, con Taeko divisa tra l’uomo che vuole proteggerla ma non è capace di guardarla in faccia, e l’uomo che lei sente di dover proteggere, che sa parlare con le mani e le espressioni del viso, ma la cui comunicazione è comunque fallace, perché mente. Come in Othello, il gioco di cui Keita è campione, la “caduta” di un pezzo determina la trasformazione di quelli vicini, così l’uscita di scena di uno dei personaggi causa la trasformazione degli altri, che di nuovo si gioca sulla distanza (per Jiro si tratta di distanziarsi da casa rimanendo nella stessa città, per Taeko è necessario arrivare fino in Corea).
Il gap culturale che ci separa da una conoscenza profonda delle tradizioni e della società giapponese impedisce probabilmente al pubblico occidentale di cogliere fino in fondo le sottigliezze di questa storia di silenziosa emancipazione, ma questo rappresenta anche un limite dell’opera, che pare avere a sua volta alcuni dei problemi di comunicazione che denuncia.
Lontano dall’empatia che si sprigiona dai film di Kore-eda, Love Life ci restituisce però un documento interessante sul Giappone contemporaneo, aprendoci le porte di realtà quotidiane poco viste e di personaggi “normali” che si ritrovano ad essere portatori di trasformazioni più grandi di loro. 

In rilievo

VENERDì 7 OTTOBRE 2022
SABATO 8 OTTOBRE 2022
DOMENICA 9 OTTOBRE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2022/23 € 8,00
Un film di Mario Martone
Con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva, Aurora Quattrocchi
Genere Drammatico
Durata 117 min.
Nazione Italia 2022
Distribuzione Medusa
UNA STORIA D’AMORE E IDENTITÀ, UNA SINFONIA MEDITERRANEA CHE È RISCOPERTA DEL PROPRIO POSTO NEL MONDO. Recensione di Paola Casella
Dopo molto tempo trascorso fra il Libano e l’Egitto Felice, diventato imprenditore benestante, torna a Napoli, la città dove ha vissuto fino ai 15 anni. Sua madre Teresa, “la sarta migliore del Rione Sanità”, abita in un basso, e accoglie a braccia aperte quel figlio che credeva perduto per sempre. A poco a poco Felice riprende contatto con un mondo che aveva messo forzatamente da parte e incontra Don Luigi, un prete che combatte la camorra cercando di dare un futuro ai giovani del rione. Ma Felice ha anche bisogno di ricongiungersi con Oreste, amico fraterno e compagno di scorribande adolescenziali, che della camorra è diventato un piccolo boss. E a nulla valgono i consigli ad andarsene da Napoli e dimenticare quell’amicizia pericolosa: come se fosse possibile, lasciarsi alle spalle una città che ti è entrata per sempre nel cuore.
L’amore viscerale per Napoli di Mario Martone, e di Ermanno Rea che ha firmato il romanzo Nostalgia sul quale il film di Martone è basato, permea ogni inquadratura di questa storia di (tentata) redenzione e di straziante rimpianto.
Una storia che inizia con il peregrinare notturno di Felice per la città, non dissimile da quello di Renato Caccioppoli in Morte di un matematico napoletano: perché Napoli si può (ri)conoscere soltanto a piedi, perdendosi per i suoi vicoli, e come annuncia la frase di Pier Paolo Pasolini che apre la narrazione, “la conoscenza è nella nostalgia: chi non si perde non possiede”.
Felice deve ritrovare anche una lingua dimenticata, ibridata con l’arabo dei Paesi in cui ha vissuto per troppo tempo, e che però fanno parte della stessa anima mediterranea cui appartiene anche Napoli. Pierfrancesco Favino mette a frutto la sua straordinaria capacità di fare propri idiomi non suoi, dall’arabo appunto al dialetto partenopeo che a poco a poco riemergerà dal passato rimosso.
Anche Oreste è un rimosso da ritrovare, un cuore di tenebra con un irresistibile potere di attrazione: un colonnello Kurtz che ha smarrito la ragione, e come Marlon Brando in Apocalypse Now al primo incontro ha il volto coperto che emerge dall’oscurità e dalla vergogna. Anche Oreste è in qualche misura figlio delle sue circostanze, oltre che delle sue scelte. Ma a Napoli esistono anche scelte diverse, e Martone le fa raccontare ai ragazzi che frequentano la parrocchia e si laureano nella conoscenza della propria città.
Una città popolata di fantasmi, nella coesistenza di morte e vita di esseri umani che vivono nei cimiteri, catacombale e allo stesso tempo piena di energia, con il sottofondo dei motorini che sfrecciano minacciosi e incoscienti, e il cui rombo fa parte della magnifica colonna sonora (in cui giganteggiano i Tangerine Dreams) sui crediti finali.
Martone racconta la sua Napoli perdendocisi dentro, in un flusso libero di coscienza e conoscenza, affidando al suo protagonista il ruolo un Virgilio inconsapevole che si muove fra la morte e la vita. Favino recita con lo stesso abbandono con cui Felice si ricongiunge alla città del suo destino e ne accoglie ogni aspetto, mentre Tommaso Ragno, potente nel ruolo di Oreste, incarna l’immutabilità ottusa e cieca di un Male (quasi) necessario e (quasi) ineludibile come presupposto dialettico e filosofico.
Questa Napoli non è solo una carta sporca ma uno struggimento del cuore, un crocevia universale affascinato dal buio in cui è difficile farsi “raggio di sole” che si posa sulla monnezza e non si imbratta, ma anche un basso può diventare un punto di luce al pianterreno, un luogo magico in cui i morti continuano a vivere nei vivi e la gente comune si fa testimone della lotta quotidiana fra il Bene e il Male dietro a finestre pronte a chiudersi in fretta, e dove la lealtà è un concetto che riguarda la delinquenza come le persone perbene, perché “non si scompare senza salutare”.
Il pranzo presso una famiglia decorosa come l’incontro con Oreste sono magnifiche sinfonie visive e recitative, punteggiate dai dialoghi che Martone e Ippolita Di Majo intessono nella sceneggiatura nel rispetto (e la comprensione profonda) della prosa di Rea. La fotografia evocativa di Paolo Carnera, il montaggio sospeso di Jacopo Quadri contribuiscono a quell’atmosfera magica che appartiene ad una città inafferrabile, eppure lì da sempre e per sempre per i suoi figli, buoni e cattivi.
Nostalgia è una storia d’amore e identità, una sinfonia mediterranea che racconta la gioia di riscoprire il proprio posto nel mondo e la difficoltà di fare in quel posto scelte di campo immanenti, più ancora che immutabili.

FILM:Gli Stati Uniti contro Billie Holiday

In rilievo

VENERDì 27 MAGGIO 2022
SABATO 28 MAGGIO 2022
DOMENICA 29 MAGGIO 2022

orario proiezioni 18:00-20:30

ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con mascherina ffp2

Regista: Lee Daniels
Genere: Biografico, Drammatico
Paese: USA
Durata: 126 min
Distribuzione: BIM Distribuzione

NON BIOPIC MA CRONACA DI UNA PERSECUZIONE E DI UN BRANO DEFLAGRANTE, CON UNA GRANDE INTERPRETE ALL’ALTEZZA.
Recensione di Raffaella Giancristofaro

Risale al 1937 la prima proposta di legge presentata al Senato statunitense che chiedeva l’abolizione del linciaggio degli afroamericani, e fu respinta. Lo ricorda una didascalia iniziale, una foto che mostra un gruppo di bianchi spettatori di un linciaggio, e un’altra didascalia che spiega che la cantante Bille Holiday divenne famosa anche per la sua canzone Strange Fruit (scritta da Abel Meeropol e registrata dalla Holiday nel 1939). Una visione di corpi straziati, pendenti dagli alberi, lasciati lì come preda di uccelli, al vento, al sole. La rappresentazione netta e inequivocabile degli effetti di cosa resta dopo un linciaggio.
Con questo prologo, e la cornice di un’intervista di fine carriera accordata a un personaggio immaginario, la regia introduce lo spettatore al momento in cui Eleanora Fagan, nata a Philadelphia nel 1915 e più nota col nome di scena di Billie Holiday, ha già conquistato un ampio pubblico, senza differenze di classe né di colore, come al Café Society di New York, dove neri e bianchi siedono vicini. Lady Day è tenuta sotto stretta osservazione da Harry Anslinger (Garrett Hedlund), capo del Federal Bureau of Narcotics sotto cinque presidenti (da Hoover a Kennedy), che vede nella canzone, scritta da un comunista di origini russe, un potente invito alla rivolta. Cantarla le può costare il ritiro della licenza per esibirsi nel circuito dei jazzclub di New York. I tentativi di incastrarla per possesso di sostanze illegali la porteranno in carcere e proseguiranno fino alla stanza d’ospedale dove morirà.
Holiday è isolata, ingannata e sfruttata anche dalla sua gente, nonostante i tentativi di disintossicazione è dipendente, come il suo sparring partner Lester Young, da alcol, oppio, eroina. Anestetici ad un passato di abuso e abbandono che si riverbera nelle relazioni private e nei tre matrimoni: con Jimmy Monroe, Joe Guy, Louis McKay.
Sulla “caccia alla donna” si concentra il film di Lee Daniels, di grana grossa e tonalità cariche nella messa in scena e molto chiaro nella tesi: con il pretesto della lotta alle droghe e lo scopo di colpire tutta la comunità afroamericana, il governo ha fatto la guerra alla cantante in quanto personalità visibile. Il punto di partenza non è una biografia ma la sceneggiatura che Suzan Lori-Parks (premio Pulitzer per la drammaturgia nel 2002 per il testo Topdog/Underdog) ha tratto da un capitolo del libro “Chasing the Scream” di Johann Hari dedicato a Holiday. In questo senso il personaggio dell’agente federale Jimmy Fletcher, messo da Anslinger alle costole dell’artista (Trevante Rhodes, scoperto da Barry Jenkins in Moonlight) rappresenta la graduale presa di consapevolezza.
Nonostante il trattamento schematico, qualche insistenza sugli aspetti di degrado e di orgogliosa sguaiataggine dell’entourage, Gli Stati Uniti contro Billy Holiday si distingue per la prova sorprendentemente fluida di Andra Day, una nomination all’Oscar come protagonista. Classe 1984, a sua volta cantante, famosa per il singolo “Rise Up”, è perfettamente a suo agio negli abiti (di Paolo Nieddu e Prada) e nelle acconciature lucide e gonfie, e con voce roca modula con grande disinvoltura e mestiere un buon numero di brani, da “Solitude” a “All of Me”, da “Ain’t Nobody Business” a “Lover Man”, da “Gimme a Pigfoot and a Bottle of Beer” a “God Bless the Child”.
Tra sporadiche sovrapposizioni tra il girato attuale e le immagini d’epoca – tra cui l’impressionante foto iniziale e una ripresa del funerale – il film segue una rumorosa, banditesca carovana artistica e alcune vivaci presenze queer: l’assistente Miss Freddy (Miss Lawrence) e Reginald Lord Devine (Leslie Jordan), immaginari, e le reali Roslyn (Da’Vine Joy Randolph), amica e parrucchiera di Holiday, e attrice Tallulah Bankhead (Natasha Lyonne), l’amante hollywoodiana, risolta in una parentesi decorativa. Va comunque riconosciuto al film il merito di riscoprire e riattualizzare il primato artistico di “Strange Fruit”. Curiosità per cinefili: il commento musicale di una scena di “buco” viene dallo score di Alberto Iglesias per Tutto su mia madre. 

FILM:GENERAZIONE LOW COST

In rilievo

VENERDì 20 MAGGIO 2022
SABATO 21 MAGGIO 2022
DOMENICA 22 MAGGIO 2022

orario proiezioni 18:00-20:15

ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con mascherina ffp2

Un film di Julie Lecoustre, Emmanuel Marre
Con Adèle Exarchopoulos, Alexandre Perrier (II), Mara Taquin, Jonathon Sawdon
Genere Commedia
Durata 110 min.
Nazione Belgio, Francia
Distribuzione I Wonder Pictures

IL RITRATTO INTRIGANTE DELLA VITA (SOSPESA) TRA LE NUVOLE DI UN’ASSISTENTE DI VOLO.
Recensione di Tommaso Tocci

Cassandre lavora come assistente di volo per una compagnia aerea low-cost. La sua vita è fatta di spostamenti continui tra località turistiche europee, estenuanti esercizi di vendita di profumi e bevande a bordo degli aerei, e feste in compagnia dei colleghi. Nei pochi momenti trascorsi a terra, la ragazza torna nell’appartamento che condivide a Lanzarote, alle Canarie. Tra la passione per Instagram e il vago sogno di lavorare per una compagnia di alto livello, Cassandre continua a vivere la sua routine finché un imprevisto non la mette di fronte alle sue origini e a un trauma che cerca di dimenticare.
La prima regia nel lungometraggio per il duo formato dai francesi Julie Lecoustre ed Emmanuel Marre è uno spaccato di vita contemporanea su un soggetto originale.
L’esistenza sospesa di una generazione di assistenti di volo, e in particolare nel tritacarne delle linee low-cost, viene raccontata dagli autori con dovizia di particolari, mettendo in fila ogni dettaglio al fine di trasmettere allo spettatore tutte le sfaccettature tediose e vuote di questa vita.
In un registro che è per scelta piatto e ripetitivo, dal taglio quasi documentaristico, Adèle Exarchopoulos nel ruolo della protagonista è un’iniezione di star power, una presenza magnetica che aiuta a non perdersi nel senso di straniamento evocato dalla storia. La sua Cassandre è una ragazza ormeggiata in un porto lontano, il cui senso di provvisorietà si calcifica in uno scorrere insostenibile. Un ritratto generazionale che si applica agli scenari contemporanei della gig economy ma che in realtà la precede, visto che il mito degli spostamenti low-cost in giro per l’Europa catturava le menti dei più giovani già un paio di decenni fa.
Non a caso c’è una stanchezza residuale al centro di Zero fucks given, i cui personaggi non possono andare oltre il fatalismo del presente (“non so nemmeno se sarò viva domani” risponde Cassandre a chi cerca di sensibilizzarla alla causa dell’impegno operaio). Anche l’immagine del futuro è filtrata attraverso il feed di un social network, dal quale si forma il sogno di passare a una linea aerea come Emirates per le belle divise ma al tempo stesso si cerca di schivare le promozioni per evitarne le responsabilità.
I due registi integrano alla perfezione questi due elementi con uno stile che oscilla tra la cronaca indaffarata della macchina a mano incollata ai personaggi e gli inserti privati, che mimano la forma espressiva di Instagram come fossero Polaroid di un tempo lontano, re-immaginate per l’era digitale.

FILM: ANIMA BELLA

In rilievo

VENERDì 13 MAGGIO 2022
SABATO 14 MAGGIO 2022
DOMENICA 15 MAGGIO 2022

orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con mascherina ffp2

Un film di Dario Albertini
Con Elisabetta Rocchetti, Francesca Chillemi, Paola Lavini, Piera Degli Esposti. Genere Drammatico
Durata 95 min.
Nazione Italia
Distribuzione Cineteca di Bologna

IL RITRATTO TENERO E COMMOVENTE DI UNA RAGAZZA SOLARE FIN DAL NOME A DISPETTO DELLE SUE CIRCOSTANZE.
Recensione di Paola Casella

Dopo la morte della madre, Gioia continua a vivere in un piccolo centro di campagna con il padre, occupandosi del loro gregge di pecore e della vendita di latte e formaggi. È benvoluta nella comunità di cui fa parte integrante, circondata dalle amiche, dai fedeli della parrocchia locale e da tante persone che apprezzano la sua disponibilità e gentilezza. Ma suo padre Bruno ha il vizio del gioco e si indebita continuamente: il che significa dover trovare i denari per pagare i suoi creditori. Uno psicologo consiglia alla ragazza di far ammettere Bruno in un centro di riabilitazione per le dipendenze, ma sarà l’uomo a dover dimostrare la sua voglia di smettere. E Gioia dovrà prendere decisioni drastiche riguardo alla propria vita e a quella del padre.
Dopo il successo con il lungometraggio di esordio Manuel, Dario Albertini torna al grande schermo con una maturità superiore, mettendo bene a frutto il suo passato di documentarista, e in particolare il primo lavoro, Slot – Le intermittenti luci di Franco, che seguiva la quotidianità di un giocatore d’azzardo compulsivo.
Questa volta però Albertini sceglie di mostrare le ricadute su chi sta vicino a un giocatore, e in qualche misura dipende da lui per la sua sopravvivenza. Con Gioia il regista e sceneggiatore (insieme a Simone Ranucci) disegna in punta di penna il ritratto di una ragazza solare fin dal nome a dispetto delle sue modeste circostanze, che si muove con leggerezza operosa all’interno di una comunità solidale mai raccontata con condiscendenza.
Staccarsi da quella comunità per venire in aiuto del padre sarà per lei la parte più difficile in un processo di crescita che riguarda sia lei, più matura dei suoi anni, che l’adulto mai cresciuto che l’accompagna. L’approccio naturalistico di Albertini e la recitazione istintiva di Madalina Maria Jekal e Luciano Miele sono a totale servizio della credibilità della storia e dei ruoli di Gioia e di Bruno. Intorno a loro un cast misto di non attori e di professionisti poco visti al cinema, da Elisabetta Rocchetti a Yuri Casagrande Gori a Francesca Chillemi, più il cammeo di Piera Degli Esposti che ci fa rimpiangere ancora di più la sua scomparsa.
Albertini appartiene alla nuova generazione di registi italiani che provengono dal documentario e che aderiscono ad un criterio di verità e realismo molto rigoroso, da Alice Rohrwacher, soprattutto quella di Corpo celeste, e Jonas Carpignano. Proprio la somiglianza, per struttura narrativa e caratterizzazione della protagonista, con A Chiara di Carpignano, Gioia rischia di “arrivare secondo”, quando invece (oltre ad essere stato sviluppato in tempi paralleli) merita attenzione individuale e affetto esclusivo.
La bella mano di regia di Albertini riesce a non essere mai impositiva o invadente e racconta con tenera partecipazione i sogni e le speranze di un’anima giovane e incontaminata, che consce la nobiltà del lavoro e riesce a frequentare squallidi motel senza sporcarsi, nonché ad usufruire delle nuove tecnologie senza lasciarsene fagocitare. 

FILM: Gli amori di Anaïs

In rilievo

VENERDì 6 MAGGIO 2022
SABATO 7 MAGGIO 2022
DOMENICA 8 MAGGIO 2022

orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00

obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2

Un film di Charline Bourgeois-Tacquet. Con Anaïs Demoustier, Valeria Bruni Tedeschi, Denis Podalydès, Jean-Charles Clichet
Genere Sentimentale
Durata 98 min.
Nazione Francia
Distribuzione Officine Ubu

UN FILM TUTTO DI SCRITTURA E RECITAZIONE, CON LO CHARME IMMEDIATO, NATURALE, TRAVOLGENTE DI ANAIS DEMOUSTIER.
Recensione di Giovanni Bogani

Anaïs ha trent’anni, soldi in tasca pochi. Non sta mai ferma, non sta mai zitta, è perennemente in ritardo. Sembra vivere l’attimo, senza preoccuparsi mai delle conseguenze. Deve finire di scrivere la tesi, è in ritardo con l’affitto, ha un fidanzato che forse non ama più, al quale rivela di essere incinta quasi distrattamente. L’incontro con un editore che ha il doppio dei suoi anni la porterà a iniziare qualcosa: ma ad intrigarla sarà, molto di più, la compagna di lui, scrittrice e saggista di successo. Una donna che, forse, è tutto quello che Anaïs vorrebbe diventare. S’incontrano per caso. Poi Anaïs troverà il modo di incontrarla di nuovo.
Che cosa vuole davvero Anaïs? Vuole vivere pienamente, intensamente. Vuole l’amore: magari, rubandolo. Un film sapientemente sospeso fra leggerezza, dolore e desideri.
Parte con i ritmi di un minuetto, una sarabanda: Anaïs corre, corre trafelata, con una bicicletta su cui non la vediamo mai salire: la trascina sempre a mano, la porterebbe anche su per le scale. Anaïs leggera come i vestitini che indossa, gonne corte, cotone rosso come la giovanissima, e sexy, Emmanuelle Seigner in Frantic di Roman Polanski. Anaïs corre, nel film di Charline Bourgeois-Tacquet che senti esserle vicina, complice. Corre, e si strappa via dalle ali, si sbarazza di ragazzi che la amano, gravidanze indesiderate, professori universitari, editori incontrati ad una festa.
La prima cosa che salta agli occhi, nel film, è questa figura leggera, da nouvelle vague, attorno a cui sembra avvitarsi tutta l’opera, come se inseguisse i suoi movimenti – i primi piani sequenza, vertiginosi – le sue indecisioni, le sue bugie, il suo potere di sedurre chiunque con un vestitino da tre soldi, le gambe nude, e un talento per dribblare ogni domanda. Ricorda un’altra giovane donna, bella e indecisa a tutto: la Frances Ha tratteggiata da Greta Gerwig, in una New York in bianco e nero che, per un attimo, aveva fatto sognare di essere tornati ai tempi del miglior Woody Allen.
Qui, più che vicino a Woody Allen, siamo dalle parti del cinema di Rohmer e di Rivette, o di Louis Malle: campagna, borghesia intellettuale, dialoghi veloci che scivolano come acqua di ruscello. E ogni tanto una citazione di Duras, o una foto di Alain Robbe-Grillet.
Una villa in campagna, un seminario di letteratura, un ipotetico triangolo di seduzioni e tradimenti. Ma anziché giocare con la commedia, sfruttare le potenzialità degli equivoci, il film sembra somigliare più ai “racconti morali” di Eric Rohmer, e lei, con una protagonista inquieta come la protagonista de Il raggio verde. Fatto sta che il film vede tutto con gli occhi di Anaïs. E tu, spettatore, ti chiedi a lungo che cosa voglia veramente questa ragazza. Alla fine lo capisci; vuole vivere pienamente, intensamente. “Ho paura dell’infelicità, e questo mi rende egoista” dice dopo aver visitato la madre, che scopre malata – un’interpretazione sobria e notevolissima di Anne Canovas.
Anaïs si può solo amare. Perchè è bugiarda con tutti, ma è più vera di tutti. Per lei conta solo il grado più alto della passione, l’assoluto del desiderio. Il resto è fuffa, è zavorra. Intravede l’assoluto nell’incontro con la scrittrice, interpretata da una Valeria Bruni Tedeschi dalla recitazione sobria, senza accelerazioni improvvise, precipitazioni, manierismi. La scrittrice si è ritirata in un bunker invisibile, dove l’unico azzardo è cambiare stile di scrittura, secondo l’argomento. Anaïs le oppone la sua fame di vivere, di amare. E si permette di rovesciare tutto in un istante.
Equilibrato fra commedia – a un certo punto c’è anche un lèmure in overdose – dramma e viaggio sentimentale, Gli amori di Anaïs è un film tutto di scrittura e di recitazione. La regia ti fa essere lì, e quando è necessario ti fa anche sentire – con alcuni primissimi piani – la delicatezza della pelle di Anais, il rossore sul collo di Bruni Tedeschi. Ma per la maggior parte del tempo ti fa “essere lì”, ed è ciò che conta. La musica, firmata da un fuoriclasse come Nicola Piovani, non invade: per apparire magari prepotente all’interno del racconto, quando Valeria Bruni Tedeschi e Anaïs Demoustier ballano, in una luce di crepuscolo in cui ogni equilibrio sembra più fragile, sulle note rauche di “Bette Davis Eyes” di Kim Carnes.
E gli uomini? Uno dopo l’altro, tutti cadono in trappola. Tutti manipolati, ingannati, tutti fermi a guardare Anais che se ne va sempre altrove. Ma è lei che ha ragione: lei che mente, lei che cambia direzione all’improvviso. Perché l’amore lo si ruba, non lo si attende pazienti. E lei ruba l’amore, sapendo di potersi fare male. Petite voleuse, piccola ladra; come il titolo di un film di Claude Miller con una giovanissima Charlotte Gainsbourg.
Dimenticavamo, ma lo avete capito: Anais Demoustier illumina lo schermo, con la sua energia, la sua freschezza, il suo charme così immediato, naturale, travolgente. 

FILM: UN FIGLIO

In rilievo

VENERDì 29 APRILE 2022
SABATO 30 APRILE 2022
DOMENICA 1 MAGGIO 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2

Un film di Mehdi Barsaoui
Con Sami Bouajila, Najla ben Abdallah, Youssef Khemiri, Slah Msadek Genere Drammatico
Durata 96 min.
Nazione Tunisia, Francia, Libano, Qatar
Distribuzione Valmyn

UN COMMOVENTE DRAMMA FAMIGLIARE CHE TIENE SEMPRE PRESENTE IL CONTESTO IN CUI SI INSERISCE.
Recensione di Giancarlo Zappoli

Estate 2011, Tatouine in Tunisia. Fares, Meriem e il figlio di undici anni Aziz fanno una gita con amici nel sud del Paese. Lungo la strada del ritorno il nucleo familiare si trova coinvolto in una sparatoria tra gruppi islamisti e l’esercito regolare. Aziz viene ferito gravemente al fegato e ricoverato d’urgenza. La diagnosi è infausta a meno che non si proceda in tempi sufficientemente rapidi al trapianto. A questo punto emerge un dato che rivela un segreto fino ad allora celato e la situazione si complica da una molteplicità di punti di vista.
In una società in bilico tra una visione progressista dei rapporti interpersonali e un radicalismo estremista religioso la vita di un bambino viene messa in grave pericolo proprio a causa delle profonde contraddizioni che attraversano il Paese mediorientale in cui vive.
Mehdi M. Barsaoui si è formato al Dams di Bologna ed è stato anche montatore del documentario Era meglio domani che ha al centro una donna in lotta per riavere i suoi figli mentre intorno a lei la Rivoluzione dei gelsomini si fa sempre più presente. Giunto al suo primo lungometraggio di finzione mostra che il tema gli sta ancora a cuore e che, attorno a questo nucleo centrale, è interessato a sviluppare un più ampio contesto. Sin da subito ci ricorda che in quegli stessi giorni il regime di Mu’ ammar Gheddafi era messo in discussione da una rivolta che stava progressivamente erodendo il suo potere seminando al contempo morte e distruzione.
Meriem e Fares sono consapevoli di quanto stia accadendo anche in Tunisia, hanno una buona collocazione in ambito sociale, lei è una dirigente e i loro amici fanno tutti parte dell’area progressista. Barsaoui ci mostra però come uno sconvolgimento come il pericolo di morte di un figlio possa mandare all’aria ogni certezza ed ogni convincimento.
Ancora una volta in un film è bene non sapere preventivamente quale sia l’elemento che si aggiunge al ferimento del bambino perché questa informazione deve giungere allo spettatore così come a chi si trova a doversi confrontare con essa sullo schermo. Da qui si dirameranno una serie di riflessioni che vanno oltre il caso specifico (a cui danno corpo ed intensa partecipazione Sami Bouajila nel ruolo di Fares e Najla Ben Abdallah in quello di Meriem) per affrontare le contraddizioni di una società in cui la donna è solo apparentemente più libera.
Non ci sono chador né burka da indossare in Tunisia ma quando si giunge al punto di discrimine chi paga di più è lei. Ogni idea liberale e progressista cade di colpo ed emerge un maschilismo che la legge incoraggia e sostiene sulla base di disposizioni che sopravvivono ai cambiamenti che la società sta attraversando. A questo si aggiunge la sconvolgente pratica del traffico di organi. Un argomento a cui tutti noi e i media in primis preferiscono non pensare forse perché troppo dilaniante quando si pensa che i ‘donatori’ possano essere non solo persone in difficoltà economiche (e sarebbe già grave) ma addirittura bambini.
Barsaoui ce lo ricorda invitandoci a non voltare la testa mentre al contempo fa riflettere noi e soprattutto i suoi compatrioti sul fatto che la donazione di organi debba essere sottoposta ad un controllo legale che sappia però superare le maglie di una burocrazia che alimenta se stessa rischiando di mettere a repentaglio la vita altrui quando questa potrebbe invece essere salvata.
Nei corridoi di un ospedale la camera segue lo sviluppo di un dramma familiare senza però chiudersi (e in questo sta l’originalità della sceneggiatura scritta dallo stesso Barsaoui) in esso ma tenendo sempre presente il contesto sociale in cui si inserisce 

FILM: TRA DUE MONDI

In rilievo

VENERDì 22 APRILE 2022
SABATO 23 APRILE 2022
DOMENICA 24 APRILE 2022

orario proiezioni 18:00-20:15

ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2

Un film di Emmanuel Carrère
Con Juliette Binoche, Hélène Lambert, Léa Carne, Emily Madeleine
Genere Drammatico
Durata 106 min.
Nazione Francia
Distribuzione Teodora Film

UNA BELLA PROVA DI ATTORI E NON ATTORI, SOTTO LA GUIDA CORAGGIOSA DI EMMANUEL CARRÈRE.
Recensione di Paola Casella

Caen, Normandia. Marianne si è appena trasferita nella cittadina costiera da cui partono i traghetti per l’Inghilterra. Il marito l’ha lasciata per una donna più giovane e lei cerca lavoro come domestica. All’ufficio di collocamento, nei training center e poi sui luoghi di lavoro incontra altre domestiche, in particolare la giovane Marilou e la madre single Christelle, con cui lega facilmente. Le tre donne accetteranno un lavoro a bordo di un traghetto: un incarico ingrato, sporco e faticoso, affrontato da un gruppetto di lavoratori e lavoratrici che provengono da storie di emarginazione economica e sociale, ma che sanno fare squadra tra loro e darsi una mano a vicenda.
Lo scrittore e regista Emmanuel Carrère ha tratto la sceneggiatura di Between Two Worlds dal racconto autobiografico “Il Quai de Ouistreham” scritto dalla giornalista Florence Aubenas, e invece di trarne un documentario l’ha trasformato in un’opera di finzione che affronta temi di grande attualità: la disoccupazione, la crisi economica, l’assenza di servizi sociali adeguati, il precariato, lo sfruttamento nei luoghi di lavoro.
La protagonista Marianne, senza fare spoiler, è più vicina alle sensibilità di Carrère di quanto l’incipit del racconto porti a pensare, e al centro della storia c’è l’impossibilità fra mondi diversi (come annuncia il titolo del film) di incontrarsi fino in fondo.
È questo l’ostacolo con cui lo stesso Carrère si confronta: raccontare da intellettuale benestante una classe sociale svantaggiata, operazione che era anche al centro del racconto di Aubenas. Ma mentre l’approccio della giornalista era analitico quello di Carrère è fortemente empatico: anche se siamo lontani dalla disinvoltura cinematografica su questi temi di autori come i fratelli Dardenne, Stéphane Brizé o Laurent Cantet perché si sente che Carrère, che come regista ha alle spalle il documentario Retour à Kotelnitch e il film di finzione L’amore sospetto tratto dal suo romanzo “I baffi”, ha meno esperienza filmica. Laddove in letteratura Carrère si muove con agilità pirotecnica, dietro la cinepresa è ancora un paperotto che affronta l’acqua con coraggio ma anche qualche espediente letterario di troppo.
Tuttavia il suo coraggio va premiato e trova dalla sua parte la protagonista Juliette Binoche, fondamentale fin dai primi approcci con Aubenas nel portare il progetto sul grande schermo, e un cast di non attori fra cui spicca la formidabile interprete del personaggio di Christelle. È soprattutto a loro che si deve la credibilità di questa storia che racconta non solo le difficoltà delle classi sottoprivilegiate ma anche la solidarietà che si crea al loro interno, fra persone che non si misurano dalla dimensione del portafoglio ma dalla capacità di venirsi reciprocamente in soccorso. Se in questo mondo la regola non scritta è che ognuno rimanga al proprio posto, all’interno dei posti meno in vista si può trovare più spessore umano che fra chi rivendica la propria posizione superiore.

FILM: LAMB

In rilievo

GIOVEDì 14 APRILE 2022
VENERDì 15 APRILE 2022
SABATO 16 APRILE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15

ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00

obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2

Un film di Valdimar Jóhannsson
Con Noomi Rapace, Björn Hlynur Haraldsson, Hilmir Snær Guðnason, Ingvar Eggert Sigurðsson
Genere Drammatico
Durata 106 min.
Nazione Islanda
Distribuzione Wanted

UN FILM CHE PORTA A CREDERE ALL’INCREDIBILE, CON UNA NOOMI RAPACE STRAORDINARIA PER INTENSITÀ E PATHOS.
Recensione di Paola Casella

Maria e Ingvar sono una coppia di agricoltori e allevatori che vive in una fattoria isolata da qualunque altro insediamento e qualunque altra creatura umana. La loro vita è scandita dalle necessità del lavoro nei campi e della cura di un nutrito gregge di pecore. Tutto sembra procedere tranquillamente, ma fra Maria e Ingvar c’è troppo silenzio e intorno alla fattoria incombe una presenza oscura che visita il gregge incustodito. Un giorno i due coniugi aiutano una pecora a partorire un esserino del quale si innamorano a prima vista, e che iniziano ad accudire in casa propria, sottraendolo alla madre naturale. È l’inizio di una deriva che ha le sue radici in un vuoto che attraversa il passato della coppia, e che aprirà la porta alla tenerezza e al mistero.
Lamb, opera prima del regista sceneggiatore islandese Valdimar Johannsson, ha a che vedere tanto con lo svedese Border, nella sua rappresentazione di un sovrannaturale concreto e materico all’interno di ambienti nordici in cui la natura è dominante, quanto con il francese Ricky nel raccontare la genitorialità in una veste tenera e surreale, con un tocco di magia. Ma Lamb ha molto a che vedere anche con le leggende folk del Nord Europa piene di creature mitologiche e con il genere horror, non tanto a causa di quelle creature, quanto della tensione che sottende tutta la narrazione, sempre intrisa di minaccia.
Noomi Rapace nel ruolo di Maria è straordinaria per intensità e pathos, e incarna una determinazione speculare alla sua disperazione.
Lamb può essere letto come una metafora di quella determinazione disperata, pronta a superare qualsiasi limite e a trasgredire ogni legge di natura. Johannsson incastona i suoi personaggi in una natura incontaminata e indifferente agli esseri umani che cercano di dominarla attraverso l’agricoltura e la pastorizia, e si rifiutano di accettare il suo dominio. Anche il silenzio che circonda Ingvar e Maria (contrastato dalle musiche potenti del tappeto sonoro) si innesta in quella legge naturale che impedisce agli animali di esprimere verbalmente le proprie emozioni e rivendicare attraverso la parola i propri diritti.
Ingvar e Maria non sono due “ignoranti zappaterra”, leggono libri e ascoltano musica, conoscono la raffinatezza del pensiero alto e dei sentimenti più puri, come quello che li lega l’uno all’altra. Ma allo stesso tempo sono animali dagli istinti primordiali e ferini, pronti a prendere il sopravvento. La loro storia è divisa in tre capitoli che sono in realtà gli atti teatrali di una drammaturgia necessaria perché deve compiersi ad ogni costo, e il modo in cui ogni personaggio, umano o animale, entra in scena dà la misura dell’originalità narrativa e visuale del regista-sceneggiatore, che ha meditato a fondo ogni inquadratura, ogni quadro desolato, ogni spazio immenso oppure rigidamente delimitato, così come ogni luce accecante o invece carica di ombre.
Lamb ti porta a credere all’incredibile, come fanno i suoi protagonisti, e allo stesso tempo ti accompagna verso un finale che rivela la profondità di certe ferite e l’irrimediabilità di certi percorsi umani.

FILM: FULL TIME – AL CENTO PER CENTO

In rilievo

VENERDI 8 APRILE 2022
SABATO 9 APRILE 2022
DOMENICA 10 APRILE 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2
Un film di Eric Gravel
Con Laure Calamy, Anne Suarez, Geneviève Mnich, Nolan Arizmendi. Genere Drammatico
Durata 85 min.
Nazione Francia
Distribuzione – I Wonder Pictures

UNA MAGNIFICA LAURE CALAMY NEI PANNI DI UNA MAMMA LAVORATRICE IN PERENNE CORSA CONTRO IL TEMPO.
Recensione di Paola Casella
Julie ha due figli, un ex marito che non paga in tempo gli alimenti e un lavoro molto al di sotto delle sue capacità, con il quale mantiene a stento la famiglia. Ogni giorno si sveglia prima dell’alba, affida i bambini a una vicina anziana che le ha già detto che non ce la fa a tenerli, e si butta nel traffico del lungo tragitto che la porta dai sobborghi di Parigi alla capitale francese. E poiché in Francia in quel momento è in corso un prolungato sciopero dei mezzi di trasporto arrivare in città diventa un’impresa rocambolesca, cui Julie si dedica con ogni stratagemma. Il management dell’albergo a cinque stelle presso cui è capocameriera però non accetta scuse, e minaccia ad ogni ritardo di privare la donna dell’unico lavoro che è riuscita ad ottenere, quando invece è qualificata per occuparsi di statistiche di marketing.
Full Time è una corsa trafelata contro il tempo e il percorso a ostacoli di una mamma single lavoratrice attraverso la contemporaneità.
L’eccellente regia di Eric Gravel asseconda il ritmo affrettato e la preoccupazione costante di Julie, facendoci fare il tifo per lei dalla prima all’ultima scena, ma anche ricordandoci quanto tutti noi viviamo di corsa, inseguendo lavori sempre meno pagati e sempre più stressanti. La sceneggiatura, sempre di Gravel, è estremamente precisa e riconoscibile, mai esagerata, mai mesta o strappalacrime, anche se davvero c’è da commuoversi per la lotta impari della sua protagonista.
Il cuore pulsante del film è Laure Calamy che dà alla sua Julie pathos e leggerezza, autentica disperazione e altrettanto autentica dolcezza, creando il ritratto assai contemporaneo di una donna capace e piena di risorse costretta a saltare dentro i cerchi infuocati e sempre più ristretti della modernità.
Julie è una (super)eroina dei nostri tempi, una madre coraggio senza retorica e senza piagnistei, una centometrista del lavoro. Nonostante la fatica sa mantenersi piena di inventiva, sa ancora sorridere, e sa rimanere umana, contrariamente ad alcune delle persone che le mettono i bastoni fra le ruote.
C’è qualcosa di irresistibilmente tenero, e allo stesso tempo inarrestabilmente coraggioso, in questa donna minuta che corre da mattina a sera, ma sa anche rallentare per regalare agli altri un gesto gentile, una piccola attenzione. Full Time ricorda per molti versi La ricerca della felicità di Gabriele Muccino, ma senza toni melodrammatici e senza derive sentimentali. Julie, come molte donne di oggi, è una regina dell’affanno e una guerriera della vita. E alla fine si ha tanta, tanta voglia di abbracciarla.

FILM: LA PROMESSA-IL PREZZO DEL POTERE

In rilievo

VENERDI 1 APRILE 2022SABATO 2 APRILE 2022DOMENICA 3 APRILE 2022orario proiezioni 18:00-20:15ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2 L’INCONTRO TRA CINEMA E POLITICA SUL TERRENO DELLA NEGOZIAZIONE VERBALE RIVELA AFFINITÀ INATTESE.Recensione di Marianna CappiClémence Continua a leggere FILM: LA PROMESSA-IL PREZZO DEL POTERE

FILM: IL MALE NON ESISTE

In rilievo

VENERDI 25 MARZO 2022
SABATO 26 MARZO 2022
DOMENICA 27 MARZO 2022
orario proiezioni 18:00-20:45
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2
Un film di Mohammad Rasoulof
Con Ehsan Mirhosseini, Shaghayegh Shoorian, Kaveh Ahangar, Alireza Zareparast
Genere Drammatico
Durata 150 min.
Nazione Germania, Repubblica ceca, Iran
Distribuzione Satine Film

UN FILM CHE PARLA AL CUORE E ALLA MENTE DI CHI HA VOGLIA DI INTERROGARSI SULLA PENA DI MORTE.
Recensione di Giancarlo Zappoli
Heshmat è un buon padre e un buon marito attento ai bisogni della famiglia. Ogni mattino si alza presto per andare al lavoro. Quale lavoro? Pouya non se la sente di essere colui che legalmente dovrà sopprimere una vita umana. Cosa dovrà fare per evitare questo compito? Javad non sa che insieme alla sua ufficiale dichiarazione d’amore in occasione del compleanno della fidanzata dovrà confrontarsi con un evento che l’ha scossa profondamente. Bahram è un medico che esercita in una località sperduta e che ha deciso di incontrare per la prima volta la nipote, che vive in Germania, per rivelarle un segreto.
Forse non tutti sanno che di “Bella ciao” non esiste solo l’universalmente nota versione partigiana ma anche una legata al lavoro delle mondine. Alcuni dei suoi versi recitano:
Il capo in piedi col suo bastone
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
il capo in piedi col suo bastone
e noi curve a lavorar.
(…) Ma verrà un giorno che tutte quante
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
ma verrà un giorno che tutte quante
lavoreremo in libertà.
È nella versione cantata da Milva che essi risuonano nel film di Mohammad Rasoulof a sottolineare il bisogno di liberarsi da un particolare lavoro in uno Stato che prevede ancora la pena di morte. Il cinema iraniano, anche quello di grande valore artistico e tematico, è rimasto quasi sempre legato a situazioni e condizioni locali. Solo l’emigrazione ha permesso ad alcuni registi (ad esempio Asgar Farhadi) di allargare i propri orizzonti.
In questa occasione Rasoulof, restando forzatamente in patria in seguito a una sentenza che lo considera “propagandista contro il governo islamico”, realizza un film che andrebbe acquisito dalle distribuzioni di tutto il mondo e, in particolare, da quelle dei Paesi che conservano nella loro legislazione la pena di morte.
Perché le quattro vicende che mette in scena in capitoli separati, aventi un loro titolo specifico, affrontano tutte il tema seppur da prospettive diverse e con grande efficacia narrativa. Rasoulof dice che un giorno ha visto casualmente in strada uno dei suoi persecutori del passato e si è messo a seguirlo con l’intenzione di affrontarlo verbalmente in modo molto duro. Ma, prima di farlo, si è accorto dai comportamenti dell’uomo che non era un mostro ma che lo Stato repressivo lo aveva indirizzato in modo tale che il suo lavoro ne garantisse la continuità illiberale.
I dilemmi morali che attraversano (o non attraversano) i personaggi sono universali e sanno parlare al cuore e alla mente di chi ha voglia di interrogarsi sul diritto (o meno) di sopprimere vite umane in base alle direttive di uno Stato che fa della repressione della libertà di pensiero di uomini e donne il proprio vessillo.
A proposito di donne: si noti come nel film non solo si faccia dire a una donna che portare il velo costantemente non è divertente, ma si fa anche vedere una tintura dei capelli e un dialogo in cui nessuna delle due protagoniste indossa il velo. Anche questa, non piccola, trasgressione ai dettami del regime si rivela come molto significativa. Se, come molto probabilmente accadrà, in Iran il film verrà bandito, il resto del mondo dovrebbe manifestare concretamente il proprio interesse. Il cinema non è fatto di soli Dead Man Walking.

FILM: IL RITRATTO DEL DUCA

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VENERDI 18 MARZO 2022
SABATO 19 MARZO 2022
DOMENICA 20 MARZO 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2

Un film di Roger Michell
Con Jim Broadbent, Helen Mirren, Fionn Whitehead, Matthew Goode
Genere Commedia
Durata 96 min.
Nazione Gran Bretagna
Distribuzione Bim

UN BRILLANTE RITRATTO DI UN AUTODIDATTA DOTATO.
Recensione di Marzia Gandolfi
Newcastle, 1961. Kempton Bunton ha sessant’anni e qualcosa da dire, sempre. Contro il governo, contro la stupidità, contro l’ingiustizia sociale soprattutto, che combatte come Robin Hood nella Contea di Nottinghamshire. Ma la battaglia più strenua è quella domiciliare con Mrs. Bunton, la consorte inasprita dalla vita e dalla morte prematura della loro figlia. Kempton scrive drammi che nessuno leggerà e si batte con la BBC per abolire il canone agli anziani e ai veterani di guerra. Metà del tempo lo passa a opporsi, il resto a cercare un lavoro. Per contribuire all’economia familiare, il figlio minore ruba alla National Gallery il ritratto del Duca di Wellington. Rimproverato il suo ragazzo per il gesto, Kempton ne diventa complice chiedendo un riscatto al governo inglese da reinvestire in opere di bene. L’imprevisto, però, è dietro il corner.
Autore di una commedia romantica divenuta un classico (Notting Hill), Roger Michell firma un film (britannico) tagliato per gli Oscar.
La formula? Un soggetto nobile, un décor d’epoca, una cup of tea e un ruolo di primo piano propizio alla performance attoriale. La schermaglia so british tra Jim Broadbent e Helen Mirren è certamente la cosa migliore del film. L’insieme è lontano dall’essere sgradevole e tutto quello che ci racconta è vero. O quasi. La storia di trasgressione di Kempton Bunton trova un’incarnazione ideale in Jim Broadbent, che ne fa un irresistibile bugiardo sempre un passo avanti alla disperazione.
Assediato dalla vita e tormentato dalla consorte, il protagonista conserva dentro di sé una fiamma che brucia di amore per la letteratura, di humour, di affetto per i suoi cari e per il mondo. I perdenti sono raramente magnifici e Roger Michell non risparmia al suo vecchio eroe qualche umiliazione. Ma Jim Broadbent è un campione di simpatia che usa come strumento del crimine. A sostenerlo nella scalata al cuore dello spettatore è un autore che prova piacere a mettere in scena i ‘delitti’ del suo personaggio. Per quanto immorali siano, la frenesia creativa offre una chance al nostro per raggiungere il resto del genere umano, quello che vuole soccorrere ‘sequestrando’ il generale che piegò Napoleone e prestò il nome a un filetto.
Senza un centesimo e tanti progetti nel cassetto (letteralmente), Kempton Bunton è snobbato dalle autorità di cui cerca invano l’attenzione e a cui vorrebbe donare una replica politica. Non c’è altro modo per lui di farsi notare che rendersi complice di un reato, in cui si rivelerà brillante. Come Spielberg in Prova a prendermi, Roger Michell si lascia inebriare dall’abilità del suo ‘impostore’, trascrivendo con piglio la tristezza e la solitudine di chi ha voglia di rialzarsi. Ritratto su ‘tela’ e sfondo, una Gran Bretagna euforica e febbrile al debutto degli anni Sessanta, The Duke non si interessa troppo al furto ma a chi lo compie in un crescendo emotivo ‘da piangere’. L’opera malinconica intrisa della solitudine degli esseri resta tuttavia un miraggio. The Duke non trascende lo stadio di aneddoto.

FILM:AFTER LOVE

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VENERDI 11 MARZO 2022
SABATO 12 MARZO 2022
DOMENICA 13 MARZO 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2

Un film di Aleem Khan
Con Joanna Scanlan, Nathalie Richard, Talid Ariss, Nasser Memarzia
Genere Drammatico
Durata 89 min.
Nazione Gran Bretagna
DistribuzioneTeodora Film

UN ESORDIO INTELLIGENTE, SENTITO E PIENO DI COMPASSIONE SU DUE DONNE E DUE COSTE OPPOSTE NELL’AMORE.
Recensione di Tommaso Tocci

Nel sud dell’Inghilterra che si affaccia sul canale della Manica, a Dover, Mary vive una vita tranquilla con il marito Ahmed, per il quale si è convertita all’Islam prima di sposarsi. Quando Ahmed muore all’improvviso, Mary trova il documento di una donna sconosciuta nel suo portafoglio. La curiosità e la paura la spingono verso la sponda francese del canale, a Calais, per chiedere spiegazioni a Genevieve, che ha un figlio, del rapporto con suo marito.
Impeccabile e rigoroso è il tono cinematografico di questo esordio alla regia per il britannico Aleem Khan: una storia di confronti e di avvicinamenti lungo la linea di confine tra due paesi e due mondi diversi.
Il materiale narrativo forse non avrebbe prodotto gli stessi risultati se Khan non avesse così ben sfruttato l’elemento ambientale della distanza tra le due località che si affacciano sulla Manica, un motivo ricorrente che permette sia visivamente che logisticamente di collassare il lontano sul vicino.
L’eleganza lineare del film si appoggia saggiamente sulla prova da protagonista di Joanna Scanlon, mastodontica in un ruolo che le richiede grande vulnerabilità e che le consente (grazie alla missione “sotto copertura” in cui si lancia Mary) di reagire a una sorpresa sconvolgente dopo l’altra mascherando stupore e liberando momenti di grande tenerezza. Quella tra lei e la dirimpettaia Nathalie Richard non è solo una danza tra donne rivali che hanno amato lo stesso uomo: Khan aggiunge al ritratto di base delle sfumature appena accennate ma di estremo interesse, primo fra tutti un discorso sulla fede musulmana che Mary ha abbracciato per amore del marito ma che ormai la definisce.
Ciò dà vita a una serie di esplorazioni che rimangono sottotraccia ma arricchiscono la fibra dell’opera, dal sociale (Genevieve avrebbe scambiato Mary per la donna delle pulizie con altrettanta facilità se non avesse indossato quel velo?) fino al culturale (le diversità nel linguaggio familiare e perfino nell’essere donna tra Francia e Gran Bretagna).
Anche la figura di Ahmed, che il regista lascia assente nella storia anche nei brevi attimi in cui è ancora presente, viene ricomposta sotto gli occhi del pubblico, a posteriori, e attraverso le esperienze di tre persone a cui mancano reciproci pezzi del puzzle.
Film intelligente e sentito, After Love non ha nemmeno un tassello fuori posto: perfino gli elementi periferici, come il segreto del giovane Solomon, vengono dal vissuto personale di un regista che è riuscito a mettere su schermo la storia della sua famiglia trovandogli però una chiave di astrazione che affascina lo spettatore. 

FILM:L’ACCUSA

In rilievo

VENERDI 4 MARZO 2022
SABATO 5 MARZO 2022
DOMENICA 6 MARZO 2022
orario proiezioni 18:00-20:30
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2

Un film di Yvan Attal
Con Charlotte Gainsbourg, Mathieu Kassovitz, Pierre Arditi, Ben Attal.
Genere Drammatico
Durata 138 min.
Nazione Francia
Distribuzione Movies Inspired

UN FILM SULL’IMPOTENZA DELLA RAGIONE E SULLA NECESSITÀ DELLA GIUSTIZIA, ATTUALE MA NON PRETESTUOSO.
Recensione di Roberto Manassero

Studente d’ingegneria a Stanford, Alexandre torna a Parigi per partecipare a un’importante cerimonia in onore del padre, un celebre giornalista televisivo. Invitato a cena dalla madre, intellettuale femminista che ha da poco lasciato il marito, Alexandre fa la conoscenza di Mila, la figlia diciassettenne del nuovo compagno della madre. Quella stessa sera, Alexandre e Mila partecipano a una festa e il giorno dopo lui viene arrestato per stupro ai danni della ragazza: cos’è successo tra i due? Alexandre, persona impulsiva e capricciosa, ha approfittato della fragilità di Mila o Mila, come sostiene Alexandre, è sempre stata consenziente durante il rapporto che hanno avuto?
Un caso di violenza sessuale affrontato in tutte le sue implicazioni razionali, irrazionali, umane, giudiziarie. La domanda attorno a cui ruota il racconto non è tanto se c’è stato o meno uno stupro ai danni di una giovane donna, ma da dove nasce e come si sviluppa il desiderio; dove inizia la cultura maschile della prevaricazione; dove, ancora, la legge può intervenire per dirimere le “cose umane”.
Le choses humaines è il titolo originale fin troppo esplicativo del film di Yann Attal: il più generico L’accusa, che traduce la versione internazionale The Accusation, sposta sul piano legale una vicenda che ha sì un risvolto giudiziario, ma riguarda prima di tutto la natura dei rapporti fra uomo e donna; gli impulsi, i pensieri, le azioni proprie degli umani che la legge è chiamata a regolare. Assolvere o accusare qualcuno di violenza sessuale, in casi in cui le versioni delle parti discordano – o meglio, come dice l’avvocato di Alexandre quando «non c’è una verità, ma due percezioni diverse della realtà» – non è una questione di morale: la giustizia deve andare oltre la morale, giudicare in base alla legge superando paradossalmente l’individualità dell’uomo e della donna.
È proprio questa individualità che il film si preoccupa di costruire nella sua lunga prima parte, in cui ogni gesto o parola è sottolineato per definire la morale dei personaggi (la visione maschile di predominio, la superiorità etica della donna colta e benestante, l’ingenuità della ragazzina spaventata da tutto…) e fare in modo che il caso di stupro metta ciascuno di fronte alle proprie responsabilità.
La sceneggiatura dello stesso Attal descrive in modo programmatico figure in contrasto per sesso, classe sociale e cultura, con il mondo altolocato e privilegiato di Alexandre (interpretato dal figlio del regista e della coprotagonista Charlotte Gainsbourg, Ben Attal) opposto a quello piccolo-borghese e ultrareligioso di Mila.
Ogni scena o particolare – per esempio, la relazione di Alexandre con una ex fidanzata, in cui il ragazzo mostra un atteggiamento possessivo e aggressivo – ritorna in fase processuale dando al racconto il medesimo principio della giustizia: se manca una verità condivisa, la sola forma di regola esistente diventa la verità giudiziaria o narrativa – la verità giudiziaria (come sottolineava già Storia di un matrimonio a proposito di un divorzio) è anch’essa una forma di narrazione, cerca cioè una traccia coerente, va a caccia di conferme credibili.
La parte processuale del film è dunque il fulcro della storia (il momento del presunto stupro è significativamente lasciato nell’ombra): Attal richiama tutti i personaggi coinvolti – l’accusato e la vittima, i genitori e gli amici di Alexandre, i periti di parte, gli avvocati, il pubblico ministero – e ha la finezza di concentrarsi sulle parole, come nel precedente film Quasi nemici, filmando le testimonianze senza sottolinearne l’effetto drammatico con piani di reazione o eccessivi stacchi di montaggio. Dove c’è solo la parola a testimoniare un crimine – «qui c’è la parola di una contro la parola dell’altro», dice ancora l’avvocato di Alexandre – il cinema ha il compito di non aggiungere altro, di non dare risposte e lasciare la soluzione del caso alla voce fuori campo.
L’accusa è per questo un’operazione fin troppo scritta a tavolino, figlio dei tempi che viviamo e attento a dare profondità alle situazioni per evitare di essere accusata di superficialità. Non ha però la pretestuosità gratuita di Una donna promettente, e per quanto sia chiaramente – e giustamente – dalla parte delle vittime (vittime di uomini che credono nell’impunità del proprio desiderio), è soprattutto un film sull’impotenza della ragione e sulla necessità della giustizia

FILM:LEONORA ADDIO

In rilievo

VENERDI 25 FEBBRAIO 2022
SABATO 26 FEBBRAIO 2022
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2

Un film di Paolo Taviani
Con Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino, Dora Becker
Genere Drammatico
Durata 90 min.
Nazione Italia
Distribuzione 01 Distribution

ORIGINALITÀ ANCHE BIZZARRA DI UN GRANDE AUTORE FA DA OMAGGIO A PIRANDELLO SU MOLTEPLICI LIVELLI E RICORDA CON AFFETTO UN FRATELLO SCOMPARSO.
Recensione di Tommaso Tocci
Luigi Pirandello riceve il premio Nobel per la letteratura nel 1934, e muore nel 1936. Lascia detto di non volere un funerale in pompa magna, e le sue ceneri vengono custodite modestamente al cimitero del Verano a Roma. Ma nei desideri dello scrittore c’era anche di ricongiungersi alla sua Sicilia, e così, dopo la guerra, un emissario del comune di Agrigento parte da Roma con una cassa di legno che ne custodisce i resti, pronto a salire su un aereo messo a disposizione da De Gasperi. Il viaggio, però, si rivelerà da subito più complesso del previsto.
A tre anni dalla morte di Vittorio, Paolo Taviani si rimette al lavoro in solitaria con un film in cui la presenza del fratello è ancora straordinariamente viva.
Già in passato i due registi avevano adattato, scomposto e ri-assemblato l’opera di Pirandello (Kaos e Tu ridi), ma con Leonora addio Taviani va oltre, mette lo scrittore dentro al testo, dialoga e ne omaggia la memoria, in una parabola in due parti, molto diverse tra loro ma entrambe sensibili all’inevitabilità del destino e alla prolungata influenza sui vivi di chi non c’è più.
Taviani parte con una dedica al fratello e gioca con Pirandello fin dal titolo, il quale cita una sua opera poi del tutto assente. Lo immagina triste nella riflessione “sul dolce della gloria e sull’amaro che è costata” mentre riceve il Nobel, lo coglie sul letto di morte a contemplare i figli. È il preludio a una prima parte di film che con inventiva fa un ritratto dell’Italia, l’Italia che a guerra finita lentamente torna a casa e torna alla vita. Volti e piccoli sketch che accompagnano il funzionario interpretato da Fabrizio Ferracane verso la Sicilia, ma che nelle poche battute concesse dicono molto di più e variano dal poetico al comico, nella migliore tradizione del nostro cinema.
Proprio il nostro cinema si fa testimonianza del periodo, più e meglio di quanto faccia la Storia stessa: Taviani usa materiale d’archivio e cinema neorealista (su tutti il finale di Il sole sorge ancora, con Carlo Lizzani che intona un “ora pro nobis” mentre va alla fucilazione) per “riempire” quel tempo in cui Pirandello riposa in una prima sepoltura lontano da casa.
Con i suoi ritmi espansi e le particolari scelte di recitazione e di struttura, Leonora addio lascia a volte perplessi nella fruizione ma rimane un’opera ostinatamente originale, capace di trasformarsi nel finale in un ulteriore adattamento pirandelliano, questa volta del crepuscolare “Il chiodo”, novella scritta poco prima di morire che dalla Sicilia riparte per emigrare a New York. Il suo delitto insensato, propiziato da quel chiodo caduto “apposta” e simbolo di un’esistenza marchiata per sempre, viene messo in scena da Taviani con una finzione ostentata, che riporta a Pirandello e all’idea iniziale che è la vita stessa a essere una performance. 

FILM: STRINGIMI FORTE

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VENERDI 18 FEBBRAIO 2022
SABATO 19 FEBBRAIO 2022
DOMENICA 20 FEBBRAIO 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2
Un film di Mathieu Amalric
Con Vicky Krieps, Samuel Mathieu, Erwan Ribard, Aurelia Petit
Genere Drammatico
Durata 97 min.
Nazione Francia
Distribuito Movies Inspired

UN FILM CHE NE CONTIENE DUE. UN CINEMA IN FRAMMENTI CHE DISEGNA UNA FUGA UNENDO A DOPPIO FILO REALTÀ E SOGNO.
Recensione di Marzia Gandolfi
Se ne va una mattina presto Clarisse. Non sappiamo dove, non sappiamo perché. Davanti la strada, dietro due figli e un marito a cui tocca trovare le parole per dire l’assenza. Marc prepara un’altra colazione e cerca un senso per aiutare i ragazzi a continuare. Lucie col suo piano, Paul con le sue domande. Clarisse guida, vuole vedere il mare mentre immagina i suoi figli crescere e Marc invecchiare. Ma niente è come appare. I dettagli si accumulano con le polaroid e i ricordi, i luoghi e i volti, le melodie e gli oggetti, confusi, riordinati e di nuovo mischiati. Forse Clarisse non è mai partita.
Adattato liberamente da una pièce teatrale di Claudine Galéa (“Je reviens de loin”), Stringimi forte è la storia di “una donna che parte” o che sembra partire. La storia destrutturata di una sposa che custodisce un segreto ‘musicato’ a turno da Chopin, Debussy, Rameau, Ravel, Beethoven, Mozart, Rachmaninov.
Le note musicali, onnipresenti, sono il filo conduttore dell’emozione, dirigono il film verso una ‘montagna’ di dolore, svolgono un film che ne contiene due. Due film che raccontano la stessa fuga ma nel primo una donna fugge dalla casa dove vive con suo marito e i suoi figli, nel secondo fugge la loro assenza.
Difficile venire a capo della nuova e radicale opera di Mathieu Amalric senza rivelare troppo allo spettatore. Non si tratta di twist o di rivelazioni, ma del momento in cui comprendiamo cos’è davvero Stringimi forte. L’attimo in cui un film vince sull’altro, una delle due ipotesi è una proiezione mentale la cui logica ha tuttavia una sua legittimità. Prima, le due trame se la disputano al montaggio e in un tempo opaco dove i morti vivono e i vivi sono ‘assenti’. Il racconto avanza, si arresta, fa marcia indietro, raddoppiato fino al punto di non sapere chi è il fantasma dell’altro.
Come aveva già fatto con Barbara, un anti-biopic caleidoscopico che coniugava più contesti, l’autore francese realizza un altro film che si prende tutto il tempo per disegnare il suo motivo. Un cinema di frammenti il suo già all’opera in La camera blu, ‘schermo’ quadrato, ossessione divorante, illusione ottica, immagini come carte da giocare. Stringimi forte rinforza la nota melodrammatica e abbraccia l’assenza. Imbarcato con la sua protagonista in un tourbillon interiore, il film materializza i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue paure, l’abisso insondabile che fugge a bordo di una vettura vintage, precipitato di una vita fa e veicolo di una fuga disperata, di una ricerca tragica, di una liberazione.
Perché qualcosa è accaduto, un sisma ha mandato in frantumi il mondo di Clarisse, scandito fino a ieri da piccole cose, dalle crêpes alle dispute a colazione. Il soggetto del film è il sisma stesso che Amalric mette in forma ricomponendo progressivamente lo choc. Un’onda d’urto che ha spazzato lontano cuori, corpi, emozioni. C’erano una casa, due auto, l’estate al mare, l’inverno in montagna, c’era una famiglia di cui Clarisse era l’epicentro. Adesso, salda al volante, è erranza geografica e mentale. Ma cos’è accaduto? La morte è passata e Amalric indaga confidando nel potere del cinema e nell’intelligenza dello spettatore.
Vicky Krieps, scoperta tra le pieghe de Il filo nascosto, incarna la catastrofe intima che attraversa il suo personaggio. Diafana e terrena, ordinaria e straordinaria, ostinata e perduta, disperata e indistruttibile, qui e altrove, conduce con grazia un film di ombre e luci, di echi tra due sposi. Clarisse sussurra a Marc (Arieh Worthalter) e lui la sente.
Una trovata vertiginosa e in voce off fa dialogare la protagonista col marito assente, una sorte di telepatia che lega passato, presente e avvenire, un avvenire che non avrà mai luogo. L’attrice non forza mai le lacrime, i singhiozzi, le emozioni. La sua fragilità passa per la sua maniera di afferrare un oggetto, di ascoltare la voce di dentro, di abbandonarsi a un bicchiere come alla follia. Piena di dignità, Clarisse deve flirtare coi limiti della ragione per potersi pensare, per potersi vedere vivere negli anni che le restano. Viva, morta o folle, la sua intensità non è mai isterica e lascia il campo all’espressione di una maternità distrutta, prima della ricomposizione della sua esistenza.
A bordo di una AMC Pacer rossa del ’79, che sembra disegnata per un road-movie e in risonanza fantasmatica con la Saab 900 di Drive My Car, la protagonista ‘mette in scena’ i suoi fantasmi, parla con sua figlia, discute con suo marito, assecondata da una regia che rappresenta quello che continua a esistere lontano dal suo sguardo. Ma tutto quello che vive sulla superficie del film passa nella sua testa. Quasi impossibile distinguere il sogno dal vero perché l’autore mostra tutto dentro una dimensione reale, anche i morti.
I fantasmi non sono stilizzati e nemmeno estetizzati, sono altrettanto reali, veri. Mathieu Amalric si conferma un grande autore, oscurato soltanto dal suo essere un grande attore. Ma quello del comédien è forse il punto osservazione migliore per nutrire il regista che vuole essere prima di tutto.
Nell’impresa lo affianca un’équipe all’altezza della sua visione che propone questa volta un trattamento originale del lutto. Un’immaginazione che dice la ‘mancanza’ distraendo dal dolore. La fotografia velata e attutita di Christophe Beaucarne assimila presenza e assenza, reale e immaginario, passato e presente, mescolando le temporalità, destabilizzando il racconto ma mantenendo la strada. E lungo la strada, Stringimi forte procede per associazioni di idee e di motivi, fino al ‘disgelo’ e alla rivelazione del mistero, fino a riconnettere un’eroina inconsolabile con la vita e con chi ama più di tutti. 

FILM: E’ ANDATO TUTTO BENE

In rilievo

VENERDI 11 FEBBRAIO 2022
SABATO 12 FEBBRAIO 2022
DOMENICA 13 FEBBRAIO 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2
Un film di François Ozon
Con Sophie Marceau, André Dussollier, Géraldine Pailhas, Charlotte Rampling. Genere Drammatico
Durata 113 min.
Nazione Francia
Distribuzione Academy Two

DURO E FRONTALE, CINICO E MORDENTE. UN OZON IN PUREZZA CHE SI INTERROGA SUGLI ASPETTI PIÙ INTIMI DELLA VITA .
Recensione di Marzia Gandolfi
La vita di Emmanuèle Bernheim, scrittrice e sceneggiatrice francese, precipita con una telefonata. Il padre ha avuto un ictus e al suo risveglio chiede alla figlia di aiutarlo a morire. A sostenerla in quella missione impossibile ci sono Pascale, la sorella trascurata, e Serge, il compagno discreto. Debole e dipendente dalle sue ragazze, André è un uomo capriccioso ed egoista, incapace di comprendere il dolore che infligge alle figlie, mai amate come era necessario. Tra lucidità e terrore, Emmanuèle e Pascale navigano a vista nel dramma. Come rifiutare al proprio padre la sua ultima volontà? Ma come accettarla? Da bambina Emmanuèle ha sognato tante volte di ‘uccidere suo padre’, un genitore tossico e poco garbato, ma aiutarlo ‘a farla finita’ nella vita reale è un’altra cosa.
Tout s’est bien passé racconta il suo tragitto intimo, dal rifiuto iniziale all’accettazione, con un’intelligenza fedele al romanzo originale.
Alla precisione asciutta della storia autobiografica di Emmanuèle Bernheim, che si impone con la sua gravità, Ozon aggiunge esplosioni di umorismo, tutte a carico di André Dussollier. Il libro è di Emmanuèle Bernheim ma il film è decisamente di François Ozon. Sotto il racconto degli ultimi istanti dell’esistenza di un uomo, di un padre, Tout s’est bien passé è un’opera sulla narrazione e sulla scrittura, senza che nessuno scriva (o quasi) in campo, è un film di fantasmi, scritto proprio dal fantasma che abita ogni inquadratura.
Morta nel 2017, Emmanuèle Bernheim era complice di Olivier Assayas e compagna di Serge Toubiana, aveva scritto nove sceneggiature di cui tre per Ozon (Sotto la sabbia, Swimming Pool, Cinque per due). Dietro di lei ha lasciato un’opera sensibile, sospesa tra letteratura e cinema, marcando il paesaggio letterario francese.
Ozon rispetta la concisione della sua scrittura, lo spazio del silenzio e dei non detti, per rappresentare un fin di vita singolare. Certo, lo sono tutte le dipartite ma quella di André è definita da due frasi: “papà mi ha chiesto di aiutarlo a morire” ed “è andato tutto bene”. Maestro nel trattamento delle norme sociali e delle disfunzioni familiari, Ozon affronta il tema del suicidio assistito con un cast sofisticato che interpreta il quotidiano concreto del paziente e dei suoi cari.
André Dussollier incarna André Bernheim, gran borghese e collezionista d’arte che un ictus rende emiplegico e che sceglie di andare a morire in Svizzera. Le protesi deformano il volto dell’attore che trova la voce, le piccole risate e le considerazioni vertiginose, disegnando un personaggio umano troppo umano che diverte e infastidisce insieme.
Alla sua impazienza infantile e alla sua crudeltà, replicano Sophie Marceau e Géraldine Pailhas (impeccabili e maestose), figlie salde e determinate a cui impone il suo addio. Restituiscono la battuta mai la pariglia, perché Emmanuèle e Pascale hanno doppiato da tempo quel padre autoritario e charmeur a cui è davvero impossibile dire di no.
‘Uccidere il padre’ e andare avanti. Indietro resta la madre di Charlotte Rampling, scultrice malata di tutti mali del mondo che addensa da sola i misteri della famiglia. Piantato al centro del film e della vita delle sue figlie come un interrogativo, André vuole andarsene e vuole farlo a modo suo, ammutinare la vita con dignità e magari sulle note di Brahms.
Ozon si piazza invece dal côté della vita trovando il ritmo del suo film nella comicità delle situazioni. Mescolando lacrime e sorrisi, Tout s’est bien passé elude la gravità del suo soggetto e vola alto, superando la paura che ispirava al regista. Perché Emmanuèle Bernheim è un personaggio reale e un’amica perduta per l’autore. Ozon gira forse il suo film più classico, sottilmente perturbato dalle oscillazioni dei generi: dal burlesco, una sedia a rotelle che proprio non vuole entrare in ascensore, al polar, la necessità di nascondere l’ultimo viaggio di André alla polizia francese, passando per il dramma, l’igiene assistita di André, che ama talmente la vita da voler morire piuttosto che diminuirla.
Alla luce di Estate ’85 si oppone l’ombra di un film che tuttavia mantiene la buona distanza per mostrare lo smarrimento e la responsabilità che pesa sui familiari e l’illegalità a cui sono costretti. Duro e frontale, cinico e mordente, Tout s’est bien passé interroga gli aspetti più intimi della fine della vita, sofferta o scelta. Ancora una volta il lutto infonde l’opera di Ozon, scavando sotto la sabbia il tempo che resta. ‘Suicida’ e pudico come il suo protagonista, l’autore preferisce (sor)ridere che piangere. “Come fanno i poveri a morire?”, domanda André a sua figlia commentando ‘il costo’ di una ‘bella fine’. Tesa e ironica, Emmanuèle risponde: “Aspettano la morte…”. Voilà, Ozon in purezza. 

FILM:ILLUSIONI PERDUTE

In rilievo

VENERDI 4 FEBBRAIO 2022
SABATO 5 FEBBRAIO 2022
DOMENICA 6 FEBBRAIO 2022
orario proiezioni 18:00-20:40
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2
Un film di Xavier Giannoli
Con Benjamin Voisin, Cécile De France, Vincent Lacoste, Xavier Dolan, Salomé Dewaels
Genere Drammatico
Durata 144 min.
Nazione Francia
Distribuzione I Wonder Pictures

GIANNOLI METTE IN SCENA LE SUE ILLUSIONI PERDUTE FACENDO ESPLODERE SULLO SCHERMO L’INCREDIBILE MODERNITÀ DI UN CLASSICO.
Recensione di Marzia Gandolfi

Lucien Chardon, de Rubempré da parte di madre, si sogna scrittore nella campagna di Angoulême. A incoraggiare i suoi versi e la sua ambizione è Madame de Bargeton, sposata a un uomo molto ricco e troppo vecchio per lei. Lui scrive poesie per elle, lei è sedotta dalla poesia. Lo scandalo provocato dalla loro relazione, lo spinge a lasciare la provincia per Parigi e la fama letteraria. Ma la capitale non fa sconti a Lucien, che passa dalle braccia di Madame de Bargeton a quelle di Coralie, attrice plebea a cui si consacra. A cambiargli la vita sarà l’incontro con Étienne Lousteau, redattore corrotto e corruttore di una piccola gazzetta di successo, che lo inizia al mestiere: fare il bello e il cattivo tempo sul mondo del teatro e dell’editoria. Fresco nel suo stupore, Lucien impara presto ‘la commedia umana’ e supera il maestro in perfidia. A colpi di penna abbatte l’aristocrazia che lo ha rifiutato e gli nega il titolo nobiliare che vorrebbe dannatamente riprendersi. A sue spese imparerà che tutto si compra e tutto si vende, la letteratura come la stampa, la politica come i sentimenti, la reputazione come l’anima.
Ogni generazione ha le sue illusioni perdute. Xavier Giannoli ha messo in scena le sue, facendo esplodere sullo schermo l’incredibile modernità di un classico.
Opera capitale dentro un’opera monumentale, “Illusioni perdute” è il vertice e il cuore battente de “La Commedia umana”, manifesto balzachiano per eccellenza. Giannoli si è gettato sul romanzo di Honoré de Balzac come ci si getta sul ring, con la volontà di combattere, di sperimentare e di comprendere cosa ne è dell’ambizione nella Francia divisa tra la provincia e Parigi, sedotta dal successo e dal denaro. Cosa ne è della stampa oggi con la moltiplicazione dei titoli e dei supporti, l’invenzione di format e di rubriche, la diversificazione dei lettori potenziali. Perché non c’è rivoluzione senza crisi e perché certe rivoluzioni ‘ritornano’ ai fondamentali della stampa: il giornalismo partecipativo, il dialogismo, la conversazione, lo spazio social, il romanzo sociale.
Due secoli dopo, l’opera mostro di Balzac parla della nostra epoca. La Francia del 1820, che cercava di dimenticare la Rivoluzione e le guerre imperiali riempiendo i teatri, dialoga con quella contemporanea. Le parole di Balzac raccontano di oligarchie finanziarie, di compromessi tra politica e stampa, di banchieri al governo…
Classico nella forma, moderno sul fondo, Illusions perdues è abitato da un cast solido. Benjamin Voisin, Cécile de France, Vincent Lacoste, Xavier Dolan, Salomé Dewaels, Jeanne Balibar, Gérard Depardieu, André Marcon, Louis-Do de Lencquesaing, Jean-Francois Stévenin donano al film lo slancio di un racconto accessibile a tutti. Fuori intanto Parigi brucia quello che non incensa, secondo l’umore del momento e con la complicità della stampa.
Sappiamo tutto il male che Balzac pensava dei giornali. Maltrattato da gens de sac e di piuma, raccolta in piccoli cenacoli ciarlieri e rivali che pubblicavano fogli effimeri e sovente ricattatori, lo scrittore aveva riservato a questa nascente corporazione un risentimento profondo. Non sorprende che l’acredine di Balzac faccia ancora centro, riattivando la sfiducia sempre attuale nella stampa.
Ma Balzac è altrimenti la più fiammante incarnazione dello scrittore-giornalista, della tensione della parola tra scrittura periodica, dentro al flusso dell’attualità, e volontà di creare un’opera finzionale che resista al tempo e passi alla Storia. Una contraddizione che l’autore francese mutò in ricchezza.
Balzac non si accontentò mai di essere un volgare “mercante di frasi”, accompagnando le mutazioni dell’insorgente era mediatica, partecipando alla rivoluzione del romanzo d’appendice e dirigendo due giornali. Si spiega così l’empatia per Lousteau, piccola star dei media, specializzata nelle bons mots e nelle formule che uccidono, o per Dauriat, editore senza cultura che non legge, non scrive ma sa far di conto. Balzac non era certo un polemista, dietro al sarcasmo o al gusto della battuta, le sue pagine creano mondi ossessionati dal fantastico sociale e dall’alchimia delle relazioni umane. Da quella palude di fango, sangue e brame emerge personaggi come Étienne Lousteau, diavoli immorali e irresistibili.
Giannoli, da par suo, non è populista. Il giornalismo critico (“Il giornale considera vero tutto quello che è probabile”), al suo debutto nel XIX secolo, non si fai mai argomento demagogico ma rivelatore di una meccanica essenziale nell’ascesa e poi nella caduta di Lucien. Il Lucien febbrile di Benjamin Voisin è un ragazzo del nostro secolo che cerca il suo posto nel mondo, vuole avere successo e si domanda come soddisfare la sua ambizione senza compromettersi.
Giannoli sembra scartare le allusioni troppo datate a favore di un crinale che leghi passato e presente, denaro e potere, lealtà e tradimento. Il volto bello e levigato del suo eroe, che naviga a vista tra aristocrazia e circoli artistici, si sgualcisce progressivamente, il candore si sporca lungo i marciapiedi fangosi della capitale. In una scena all’Opera, Giannoli (di)mostra come si può essere brillanti in provincia ma insignificanti a Parigi, dove la strada per pubblicare un libro volge in via crucis. Per riuscire e far progredire il sogno, bisogna essere acrobati, destreggiarsi tra gli interessi delle parti. La regola del gioco è crudele, l’illusione mortale.
Lucien è costantemente preso in trappola, senza cinismo e nemmeno romanticismo da parte di Giannoli, che filma sempre alla giusta distanza, lasciando che quattro generazioni di attori francesi si confrontino sullo schermo e intorno a un apprendistato letterario. Formidabilmente efficaci, accompagnano e provocano Benjamin Voisin. ‘Debuttante’ come il suo personaggio, conosce ancora poco le cose del mondo. Ventidue anni, faccia d’angelo, tutto jeu e fiamme, è una primavera che si scontra contro i mille inverni di Depardieu (Dauriat), è il cinema francese di domani che inciampa sul carisma indolente e scaltro di Lacoste (Étienne Lousteau), soltanto un poco più grande ma già ‘grande’.
Primizia inquieta, Voisin attraversa il film in stato di allerta mentre attorno esplode una sarabanda chiassosa, una coreografia di iniziazione convulsa e abbagliante che i compagni di gioco spingono all’acme. Battezzati a suon di Champagne, personaggio e attore comprendono presto che il loro mestiere non è una prova di velocità ma una gara di resistenza. E raramente si vince. Coralie, l’attrice pop che sognava Racine, riceverà uova marce, Lucien, che ha scommesso i suoi ultimi franchi sul successo dell’amata, perderà tutto.
Gettato nella fossa dei ‘giornalisti’, Lucien Chardon è al centro di un processo tragico di disillusione e di un romanzo di formazione in cui non apprende niente, votato com’è alle emozioni. Giannoli adatta il ‘primo romanzo totale’ e disegna un affresco sociale dominato dalla parabola dell’enfant perdu: un angelo caduto dalla seduzione inalterabile, una preda facile nel ventre di Parigi. Lucien non sarà mai Rastignac e nemmeno il suo creatore, grand homme della provincia a Parigi che fece del borghese Honoré Balssa (originario di Tours) Honoré de Balzac. Così va la commedia umana, nel suo splendore e nella sua miseria. 

FILM:ONE SECOND

In rilievo

VENERDI 28 GENNAIO 2022
SABATO 29 GENNAIO 2022
DOMENICA 30 GENNAIO 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2
Un film di Zhang Yimou
Con Zhang Yi, Wei Fan, Liu Haocun, Ailei Yu, Xiaochuan Li.
Genere Drammatico
Durata 105 min.
Nazione Cina
Distribuzione Europictures
UN RITORNO IN GRANDE SPOLVERO PER ZHANG YIMOU CHE FILMA LA SUA DICHIARAZIONE D’AMORE AL CINEMA CHE È RAPPRESENTATO COME QUALCOSA DI SACRO.
Recensione di Simone Emiliani
Negli anni della Rivoluzione Culturale, Zhang evade dal campo di lavoro forzato e vaga per il deserto per raggiungere un villaggio dove in un cinema, assieme al film Eroic Sons and Daughters, viene abbinato il cinegiornale di propaganda numero 22 in cui compare, anche solo per un secondo, l’immagine della figlia che non lo vuole più vedere dopo che è stato arrestato. Poco prima della proiezione la pellicola viene rubata da una ragazzina, l’orfana vagabonda Liu, che ha bisogno della celluloide per costruire la lampada al fratello più piccolo. Zhang, dopo aver assistito al furto, la insegue. Perde la pizza, la recupera e la perde ancora. Al villaggio intanto un pubblico molto numeroso è in attesa di assistere allo spettacolo serale organizzato dal proprietario e proiezionista del cinema, chiamato “Mr. Film”, che è visto come una divinità e si considera una figura essenziale all’interno del Partito.
Era già stato selezionato per la competizione ufficiale della Berlinale del 2019 e poi è stato ritirato all’ultimo momento per “problemi tecnici di post-produzione” che, tradotto, significa che dietro c’è stato l’intervento della censura cinese, probabilmente per come ha mostrato la povertà durante la Rivoluzione Culturale.
Nel corso di questi due anni ci sono stati degli aggiustamenti in fase di montaggio e il taglio di un minuto rispetto alla versione precedente ma la critica a quel periodo è già evidente nella battuta sulla figlia di Zhang mostrata nel cinegiornale in cui si sottolinea che “non deve competere con gli adulti”. Tratto da un romanzo della scrittrice Yan Geling, One Second rappresenta per il regista cinese un grande ritorno.
Non potendolo paragonare alla prima versione, ci si trova davanti a una totale dichiarazione d’amore al cinema. La pellicola, la sua materia soprattutto, è vista come qualcosa di sacro come si può vedere nella scena in cui le parti rovinate sono messe su dei teli e poi asciugate con dei ventagli, ma anche i ritagli che servono per costruire la lampada che può rappresentare la ‘lanterna magica’ del film. Poi ci sono quelli che possono essere gli omaggi. Il deserto che apre e chiude il film (con un doppio finale che è l’unico limite di un cinema finalmente di nuovo imponente) richiama il cinema esotico d’avventura statunitense degli anni Trenta ma anche quello dei fratelli Cohen (da Arizona Junior a Non è un paese per vecchi) che sono comunque un punto di riferimento per il cineasta cinese avendo realizzato nel 2009 un remake, onestamente fiacco, di Blood Simple.
Yimou torna ai villaggi di La storia di Qiu Ju e Non uno di meno e recupera la magia della luce del cinema da Lanterne rosse, come si può vedere dalle immagini delle ombre sul telo e dell’illuminazione dalla cabina di proiezione oltre che dall’immagine dello schermo che proietta davanti e dietro Eroic Sons and Daughters, un film di guerra del 1964 diretto da Wu Zhaodi. One Second è l’omaggio e l’illusione neorealista del cinema che passa anche per Bellissima di Visconti fino al finto dialogo padre-figlia tra Zhang e Liu sul camion degno di una commedia hollywoodiana degli anni ’40 che potrebbe essere uscita da Howard Hawks. La prova di Zhang Yi, che è già stato diretto da Zhang Yimou nel precedente Cliff Walkers ed è stato protagonista, tra gli altri, di Al di là delle montagne, è notevole assieme a quella di Liu Haocun. In più c’è tutta la magnifica ossessione e l’illusione del cinema dove anche il frammento di un solo secondo, se proiettato ripetutamente, può durare anche un’eternità.

FILM:UN EROE

In rilievo

VENERDI 21 GENNAIO 2022
SABATO 22 GENNAIO 2022
DOMENICA 23 GENNAIO 2022
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2
Un film di Asghar Farhadi
Con Sarina Farhadi, Amir Jadidi, Mohsen Tanabandeh, Fereshteh Sadre Orafaiy, Sahar Goldust
Genere Drammatico
Durata 127 min.
Nazione Francia
Distribuzione Lucky Red

SGHAR FARHADI TORNA IN IRAN E FIRMA IL FILM SOCIALE PERFETTO.
Recensione di Marzia Gandolfi
Rahim Soltani ha contratto un debito che non può onorare. Per questa ragione sconta da tre anni la pena in carcere. Separato dalla moglie, che gli ha lasciato la custodia del figlio, sogna un futuro con Farkhondeh, la nuova compagna che trova accidentalmente una borsa piena d’oro. Oro provvidenziale con cui ‘rimborsare’ il suo creditore. Rahim pensa di venderlo ma poi decide di restituirlo con un annuncio. La legittima proprietaria si presenta, l’oro è reso e il detenuto promosso al rango di eroe virtuoso dall’amministrazione penitenziaria che decide di cavalcare la notizia, mettendo a tacere i recenti casi di suicidio in cella. Rahim diventa improvvisamente oggetto dell’attenzione dei media e del pubblico. Ma l’occasione di riabilitare il suo nome, estinguere il debito e avere una riduzione della pena, diventa al contrario il debutto di una reazione a catena dove ogni tentativo di Rahim di provare la sua buona fede gli si ritorcerà contro.
Dopo due esperienze internazionali poco convincenti (Il passato e Tutti lo sanno), Asghar Farhadi torna nel suo paese e dimostra con A Hero di sapere infilare come nessuno le derive della società iraniana, logorata dalla burocrazia, la diffidenza, la manipolazione.
Attraverso il destino di Rahim e della sua impossibile redenzione, Farhadi avvia un’implacabile meccanica che concentra tutti i difetti di un regime che ha eretto il perdono e la redenzione a virtù pubbliche e mediatiche. Come in tutti i suoi film, il protagonista è alle prese con un dilemma etico e come ogni volta il regista pratica un pessimismo morale che condanna i suoi personaggi ancora prima che i titoli comincino. Rahim Soltani non fa eccezione e si dibatte inutilmente. La sua parabola finisce dove tutto è cominciato, nella prigione da cui esce ‘in licenza’ disegnando la geometria sociale di un Iran ossessionato dall’integrità di facciata e esasperato da incessanti negoziazioni, amplificate dall’intervento a gamba tesa dei social network.
Eroe per un giorno e povero diavolo per sempre, il protagonista vaga per le strade della sua città in cerca di riscatto, stringendo al petto un ‘certificato di merito’ assegnato dalla stessa comunità che adesso è pronta a sbranarlo perché nell’ansia di fare bene, Rahim ha fatto tutto male. Tutte le menzogne e le mezze-verità finiranno per screditarlo, soprattutto agli occhi sempre umidi del suo bambino, eco del Bruno Ricci desichiano (Ladri di biciclette).
Mai così inflessibile, Farhadi non risparmia nessuno, debitori e creditori, prigionieri e carcerieri, diavoli e santi, sorprendendo lo spettatore con colpi di scena che non forzano mai la logica narrativa. E quella logica è decisamente perturbante. Proviamo un’empatia profonda per il personaggio principale, sempre sorridente e confidente nel tentativo di uscire da una situazione assurda. Ma più prova ad evadere da quella prigione a cielo aperto e più si chiude dentro, inquadrato dietro ai vetri, urtato dalla cattiva fede dei suoi interlocutori, impegnati ad abusarne o a prenderne le distanze in nome di un paese perfetto, di cui il sistema mediatico si fa eco mostruoso.
Girato ad altezza d’uomo, A Hero è il film sociale perfetto che non impone nessuna morale al pubblico e dona un’idea dell’era digitale in Iran. Amir Jadidi, incredibilmente fiducioso e irrimediabilmente sconfitto, è l’eroe del titolo e di un film dove tutti hanno ragione e tutti hanno torto. Ciascuno giudica in funzione dei suoi criteri (e dei suoi interessi) personali. Ancora una volta il cinema di Farhadi ci ricorda che ci sono troppe ombre nella luce per mantenere stretta la nostra versione del mondo. Sempre parziale, sempre soggettiva. Chi può arrogarsi la verità? Certamente non Asghar Farhadi che lascia l’affaire Rahim irrisolto e invita lo spettatore a prendere le parti dell’uno o dell’altro, facendolo dubitare e facendogli cambiare posto nello svolgimento della trama. Il suo talento è di nuovo quello di rendere appassionante i casi di coscienza dei suoi personaggi, il groviglio kafkiano che li lega, li oppone e li conduce sempre verso il conflitto (e lo scacco).

INSIEME AL CINEMA: NOWHERE SPECIAL – UNA STORIA D’AMORE

In rilievo

CON IL CONTRIBUTO DELLA REGIONE LAZIO

VENERDI 7 GENNAIO 2022
SABATO 8 GENNAIO 2022
DOMENICA 9 GENNAIO 2022

orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina ffp2
Un film di Uberto Pasolini
Con James Norton, Daniel Lamont, Eileen O’Higgins, Valerie O’Connor, Stella McCusker
Genere Drammatico
Durata 96 min. Nazione Gran Bretagna Distribuzione Lucky Red
UN FILM DI IMMAGINI TANTO SEMPLICI QUANTO ELEQUENTI, CHE METTONO IN POESIA LA CRUDELTÀ DELLA VITA.
Recensione di Marianna Cappi
John è un trentaquattrenne gentile e silenzioso, che di mestiere fa il lavavetri, in giro per Belfast. La sua esistenza terrena è condannata ad esaurirsi a brevissimo termine, per colpa di un male incurabile. Nel poco tempo che gli rimane, John deve fare la cosa più importante della sua vita: trovare una famiglia per il suo bambino di quattro anni, Michael, visto che la madre li ha lasciati entrambi poco dopo la sua nascita. Mentre visitano le coppie disponibili e selezionate per l’adozione, John e Michael passano insieme la loro giornata, trasformando ogni gesto quotidiano in una memoria preziosa.
Il padre deve imparare a morire, il bambino a vivere. Lo fanno tenendosi per mano nell’attraversare la strada, quella che porta a scuola ma anche quella che porta all’addio.
Uberto Pasolini torna dunque sul luogo del trapasso, come in Still Life: non è più l’immediatamente dopo, ma l’immediatamente prima, e la sua penna è ancora la stessa, sottile e precisa, perfettamente inchiostrata, tanto autoriale quanto accessibile, nell’approccio ad un genere, quello del dramma sentimentale, che pochissimi perseguono con tanta frontalità e tale discrezione.
Ancora una volta, il film è in mano ad un interprete eccellente, James Norton, e alla nitidezza delle inquadrature, alla loro temporalità estranea alla frenesia della vita urbana, sgombra da tutto ciò che è disavanzo o orpello cinematografico. Tanto che l’immagine di apertura, con il protagonista che ripulisce con cura una grande vetrata, mondandola da tutto ciò che la offusca, si può leggere come una dichiarazione d’intenti, la ricerca (riuscita) di una verità della relazione padre-figlio che è al centro del racconto, di uno sguardo sul mondo non filtrato, in cui riflettersi per quello che si è, e leggere con trasparenza nelle vite degli altri.
Colpito dalla cronaca vera di questa vicenda, Pasolini l’ha tradotta in immagini tanto semplici quanto eloquenti, che non conoscono la durezza del cinema dei Dardenne ma piuttosto una commovente sospensione e una malinconia, sottolineata dalla colonna sonora, che il regista non rifugge ma abbraccia, senza sentimentalismo.
Sono le immagini mute di un adolescente con lo zaino in spalla che si allontana nello specchietto retrovisore, della candelina di compleanno in più che Micheal mette nella mano di John, della casa degli specchi del lunapark che restituisce le loro figure deformate, con Michael alto alto e John più piccolo, per sempre troppo giovane. Piccole grandi idee di scrittura visiva che trascendono il realismo senza negarlo e mettono in poesia la crudeltà dell’esistenza. 

insieme al cinema: IL COLORE DELLA LIBERTÀ

In rilievo

Martedì 21 DICEMBRE
Mercoledì 22 DICEMBRE
Giovedì 23 DICEMBRE 2021
orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina
Un film di Barry Alexander Brown
Con Lucas Till, Lucy Hale, Cedric the Entertainer, Brian Dennehy, Julia Ormond. Genere Drammatico
Durata 105 min.
Nazione USA
Distribuzione Notorious Pictures
Il colore della libertà, film diretto da Barry Alexander Brown, è ambientato nell’estate del 1961 e segue le vicende di un giovane nativo dell’Alabama, Bob Zellner (Lucas Till), che aderisce al Movimento per i diritti civili, ispirato dalle parole di Martin Luther King Jr., da Rosa Park e dalle manifestazioni degli studenti dei licei locali, volti a protestare contro l’assassinio di Herbert Lee.
Il ragazzo, però, è nipote di un membro del Ku Klux Klan, J.O. Zellner (Brian Dennehy), e si trova per questo in una posizione scomoda, perché per inserirsi nel movimento e combattere l’ingiustizia sociale, la repressione e la violenza sugli afroamericani, è costretto a sfidare la sua famiglia e le leggi dei bianchi del sud. 

INSIEME AL CINEMA:THE FRENCH DISPATCH

In rilievo

venerdi 17 DICEMBRE
sabato 18 DICEMBRE
domenica 19 DICEMBRE 2021

orario proiezioni 18:00-20:15
ingresso € 3,00 tessera 2021/22 € 8,00
obbligatorio ingresso con GREEN-PASS e mascherina

Un film di Wes Anderson
Con Benicio Del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Frances McDormand.
Genere Commedia
Durata 108 min.
Nazione USA
Distribuzione Walt Disney

UN MONUMENTO ALLA GRAZIA CON UN FLUSSO ININTERROTTO DI DIALOGHI E UNA PARATA DI GRANDISSIMI ATTORI.
Recensione di Marzia Gandolfi

Arthur Howitzer Jr., figlio del fondatore e proprietario del quotidiano “The Evening Sun” di Liberty (Kansas), ha convinto anni prima il padre a finanziare un supplemento domenicale e ha installato la redazione a Ennui-sur-Blasé. Espatriata in Francia, “Picnic” diventa “The French Dispatch” e copre ‘con stile’ la cronaca del paese. Perché intorno alla sua scrivania, Horowitzer Jr. ha raccolto i migliori giornalisti del suo tempo. Archeologi del quotidiano, ‘inseguono’ su campo il soggetto che gli è stato assegnato: una contestazione studentesca che volge in idillio, l’indagine di un commissario sulla pista dei rapitori di suo figlio, un artista psicotico e galeotto innamorato della sua secondina, il necrologio di Arthur Howitzer Jr, che ha posato la penna. E l’ultimo numero sarà un’antologia di articoli, i migliori, dedicata a lui. Si stampi.
Benvenuti nel nuovo conte di Wes Anderson, che trasloca in Francia (il film è girato a Angoulême) con un bastimento carico di attori e un flusso ininterrotto di dialoghi.
Parole che diventano la musica ammaliante di un film che è gourmandise per gli occhi. Ogni inquadratura meriterebbe che ci fermassimo per cogliere tutti i dettagli che riempiono lo spazio e l’universo personale di un autore per cui il cinema è soprattutto arte pittorica.
The French Dispatch è una collezione di storie ‘adattate’ dalla gazzetta diffusa nella città immaginaria di Ennui-sur-Blasé. Un album di ‘figurine’ e figuranti nobili ma fissi. Come in un vero giornale, i registri (cronaca nera, necrologi, società, cultura, cucina…) si succedono compulsivamente, inciampando sul colore, il bianco e nero, il romanzo grafico. L’iperattività del racconto, la sua messa in scena, la composizione dei quadri, la costruzione dei décor, qualche volta si fa estenuante, riducendo la storia a un pretesto, perché The French Dispatch spinge il patchwork più lontano, con le sue piccole storie incastonate, concepite come tanti capitoli visivi, meticolosamente realizzati a colori o a disegni animati.
Film inesauribile, che richiede senza dubbio più visioni per riconoscere anche solo i volti delle star (americane e francesi) che appaiono il tempo di un primo piano, The French Dispatch è l’omaggio di Wes Anderson a un mestiere che assomiglia a quello che fu il giornalismo e a un paese che assomiglia alla Francia. Piantata come una ‘casa di bambola’ al cuore di Ennui-sur-Blasé, la sede del giornale ospita una legione di attori (Tilda Swinton, Bill Murray, Owen Wilson, Benicio del Toro, Léa Seydoux, Mathieu Amalric, Lyna Khoudri, Edward Norton, Elisabeth Moss, Frances McDormand, Timothée Chalamet e ancora) venuti dalle due sponde dell’Atlantico anche solo per una replica, una battuta, per essere un frammento o un bagliore dentro un film costruito alla gloria della carta stampata e del cinema analogico.
Impossibile davvero elencarli tutti, come intravederli sullo schermo e in quella parata funebre e malinconica che apre (e chiude) sulla morte del suo flemmatico direttore. Dopo l’elegia mitteleuropea di Grand Budapest Hotel, Wes Anderson edifica le sue scenografie e consacra il suo film al “The New Yorker”, periodico americano fondato nel 1925 e articolato in reportage, critica, saggi, narrativa, satira, commenti sociali e politici, vignette e poesia, e alle sue grandi firme, James Baldwin, Joseph Mitchell, Lillian Ross.
L’edificio di Anderson è saturo di accessori, costumi e meraviglie non commestibili esposte come nella vetrina di una pasticceria d’antan. Impossibili da afferrare o da ‘assumere’ perché l’autore sembra aver rotto la relazione con la materia del mondo. Resta la minuzia estetica di un orafo maniacale che pratica la leggerezza di superficie e oppone alla barbarie che gronda sul mondo, il fragile e prezioso baluardo della poesia. E in fondo, The French Dispatch è un altro monumento alla grazia, una boule de neige souvenir di Angoulême che cita più che trasformare il cinema di Wes Anderson. BUONA VISIONE